Carillon dei pensieri

Rivista letteraria Lido dell'anima 2017 -2018

RIVISTA LETTERARIA  LIDO DELL’ANIMA – di Lidia Popa

Anno 2017 – 2019

©copyright: diritti d’autore riservati

per info email: periodicoonline.lidodellanima@gmail.com

Rivista letteraria Lido dell'anima
Lidia Popa
Anno 2017 -2019
copyright: diritti d’autore riservati
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©
Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca sufletului
Numero 10
Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 
26 settembre 2019
Carillon dei pensieri

DIVAGANDO, TRA PLATONE ,HEIDEGGER E LA VERITA’
di Gianni Mazzei
da La tartaruga di Derida

Stranamente, nel passato, all’età di vent’anni, mi è successo una cosa curiosa, con due tedeschi, grandi in ambiti diversi e in momenti storici diversi.
Vivevo allora una situazione particolare, una specie di malattia dello spirito e subii allora il fascino della musica e la malìa della parola, quasi entrando in trance e ricreando in me momenti di sospensione dell’anima, come se fossi lontano da tutti, e quasi persino forestiero a me stesso.
Ma c’è una cosa ancora più strana.
Che mi fosse capitato ascoltando la Terza sinfonia di Beethoven, specie nel franamento esistenziale della marcia funebre quando l’assolo dello strumento regge tutto l’impianto e tu ne senti l’imminente sbriciolarsi dell’io per lo sforzo immane, si può anche intuire,per la grandezza dell’autore e per l’incanto proprio della musica, per come i grandi, non ultimo Schopenhauer, ne hanno parlato.
Era tale l’accensione dell’animo in questo ascolto che scrissi, solo seguendo il ritmo della musica, una poesia, dal sapore necessariamente esistenziale.
La stranezza dunque è che la stessa ebbrezza mentale la provai leggendo Essere e Tempo di Heidegger, quasi non seguendo più, ad un certo punto,
l’argomentazione filosofica e lasciandomi trasportare solo dal ritmo del periodo, dalla musicalità della parola, al di là dal senso, in una furia orgiastica che poi ho trovato riscontrabile sia nel significato che Gorgia dà alla parola e forse, scusate l’azzardo, in quell’ affidarsi la Germania, per come sostengono storici, all’aspetto romantico ( qui inteso come emotivo incantamento), più che al rigore illuministico, nell’esperienza drammatica del nazismo.
Ecco il punto della mia stranezza sperimentata, che ora mi si ripresenta nell’affrontare l’etimologia di una parola chiave nella cultura occidentale, ossia la Verità: essere stato incantato da Heidegger non tanto nelle argomentazioni, quanto nella musicalità dell’argomentare stesso , nella poeticità del dire.
E difatti restai abbagliato, leggendo subito dopo altri scritti di Heidegger nell’apprendere che aletheia è l’apertura dell’essere, l’apparire nella sua intrinseca solarità ,sconfiggendo l’oscurità dell’ignoranza e del nascondimento.
Aletheia ,parola chiave della sapienza occidentale, che deriva da un’alfa privativa e dal verbo landano,nascondere!
Ma è proprio così?
Veramente la verità è imporsi da sé, nella sua oggettiva certezza, dando così all’essere la sua cristallina manifestazione e instaurando infine un rapporto intrinseco tra essere e linguaggio?
E,ancora, se le cose stanno così, la verità è assoluta, tanto da poter invocare anche noi, pur su un versante laico, l’ipostasi giovannea su Cristo come logos, via, verità e vita.
Saremmo garantiti da ogni crepa nel nostro esperire umano, da ogni angoscia che la morte,il dolore, la debolezza, il male, l’assurdo ogni giorno soffoca il nostro cuore e trafigge con schegge acuminate la nostra mente.
Ma ho i miei dubbi che la cosa stia così.
E dico questo senza scomodare Platone che, filosofo, greco, molto più vicino di Heidegger alla fonte delle parole che contano, dice altro, parlando di aletheia, nel Cratilo ,allorchè sostiene essere essa parola composta, da teia e ale e significa divina agitazione.
Siamo cioè nell’ambito di un’intima ricerca interiore, che pur non cadendo nel relativismo sofistico, non parla di verità oggettiva che emerge da sé e si impone con assoluta chiarezza a tutti.
La mia perplessità è di prospettiva. E mi spiego.
1) possibile mai che una parola così importante,come aletheia, abbia una sua formazione etimologia da un’alfa privativa e da un verbo?
Nessuna altra parola greca di importanza capitale è formata così.
E si spiega anche: quando sono proiettato verso una parola essenziale che conta le dò connotazione positiva, la pienezza ( come fa Parmenide, proprio per aletheia, vista come verità-realtà,pienezza dunque in contrapposizione al nulla).
Una cosa del genere mi pare che faccia lo stesso Omero, che vede in aletheia la concretezza del discorso, forse ripreso questo aspetto da uno dei tanti significati di verità,intesa come adaequatio intellectus et rei.
2) Certo, l’a privativa si riscontra già in Anassimandro,per formulare il suo celebre infinito o indeterminato, l’apeiron: ma tale parola sta a significare la possibilità di ogni possibilità o addirittura la polvere, per come ne parla Giovanni Semeraro, da cui, primigeniamente,le cose sono state create .Non quindi la sodezza della verità inconcussa.
3) Né si può dare alla parola aletheia,intesa come non-nascondimento, il significato dell’Assoluto: cadremmo in una visione mistica, estranea al mondo greco e che ci vedrebbe indicare in forma negativa ciò che sfugge al contingente, un po’ come avviene nella mistica cristiana o nella cabbala .

Il cimitero allegro di Sapanza e la concezione del popolo romeno sulla morte

de Lucia Ileana Pop

Una tra le cose di cui noi, i romeni, possiamo dire che abbiamo qualcosa che non ha nessuno è un
cimitero, un cimitero che ci dice con il suo nome che è diverso di come una persona di qualsiasi
altro angolo della terra si aspetterebbe. In più, questo cimitero si integra in una somma di
testimonianze che rispecchiano molto bene la concezione dei romeni sulla morte.
Questa mancanza della paura della morte la vediamo ancora dal tempo dei daci, che mandavano
come messaggeri al loro dio, Zamolxis, i più forti ragazzi che avevano, lanciandoli in alto e
lasciandoli cadere nelle lance alzate. Questi non si sottraevano al loro dovere, ma erano,
contrariamente, fieri dell’onore che li si faceva. Sempre loro, i daci, erano più difficilmente da
vincere nelle battaglie, proprio perché, non avendo paura della morte, combattevano con più
coraggio dei altri popoli.
Vediamo poi questa mancanza di paura nella ballata Mioriza, che presenta uno dei miti
fondamentali della cultura romena 1 , il mito della transumanza, per cui tanto tempo il nostro
popolo è stato visto come un popolo che si rassegna senza combattere, che si sottomette al
destino, non essendo capita la vera motivazione del gesto del pastore che, come ben sappiamo,
anche se viene a sapere dalla sua pecorella fantastica della sua morte che le si preparava, non
prende nessuna misura per salvarsi.
E’ vero che lui si sottomette in un certo senso al destino, ma il suo pensiero si indirizza verso il
modo in cui potrebbe passare nel mondo delle anime contento, con l’anima leggera, sposato. La
morte non è una tragedia, sembra dire il pastorello, ma devo arrivare nell’altro mondo sposato,
perché diversamente l’anima potrebbe non trovarsi la pace, e questa cosa sarebbe un problema.
Per questo lui si presenta il funerale come un matrimonio e per questo nel mondo rurale romeno
si continua a fare i funerali delle persone giovani non sposati sotto forma di matrimoni 2 .
Abbiamo poi come testimonianza una tradizione romena secondo cui, dopo la morte, i defunti non
devono essere lasciati da soli per tre giorni e tre notti, il periodo che loro restano ancora nel
mondo dei vivi prima di esserle fatto il funerale, in cui le fanno compagnia i familiari e i conoscenti,
che in questo tempo spesso giocano vicino a lui diversi giochi, alcuni anche divertenti 3 .
Il Cimitero Allegro di Sapanza 4 , distretto di Maramures, è diverso, dicevo, ma si integra
perfettamente in questa concezione del romeno che crede che la morte è in effetti soltanto il
nostro ritorno in un mondo di cui proveniamo, un ritorno alle origini. La vita è una parentesi più
lunga o più corta, e la morte significa la nostra reintegrazione nei elementi della natura di cui
proveniamo, idea molto ben rispecchiata anche nella poesia Mi resta un solo desio di Mihai
Eminescu: “Mi resta un solo desio, /Nel calmo tramonto/ Morir con il vostro oblio /All’orlo del
1 La cultura romena ha quatro miti fondamentali. Gli altri tre sono: il mito dell’etnogeneza del popolo romeno (che
appare nella ballata popolare Traian e Dochia), il mito della creazione (presente nella ballata popolare Il Monastero di
Arges o Il maestro Manole) e il mito erotico (presente nel poema di ispirazione folclorica Zburatorul de Ion Heliade-
Rèdulescu);
2 La tradizione è molto ben descritta nel libro Il matrimonio deil morto di Gail Kligman, scritto dopo profonde ricerche
in uno dei paesi più tradizionali del distretto di Maramures, Ieud (Romania);
3 Vedi Simion Florea Marian Il funerale ai romeni III. Studio etnografico, Ed. dell’Accademia Romena, Bucuresti, 1892;
4 Unico nel mondo, è visitato ogni anno di turisti venuti dai angoli più remoti della terra;

mare; / Mi sia il sonno lieve/ Il bosco fratello, / Sulle distese acque / Mi sia il ciel sereno. /
Bandiere non voglio, / Nè feretro fiero, / Bensì un verde letto / Di teneri rami.” 5 , ma anche il
quadro naturale in cui il pastorello della ballata Miorita si immagina e vuole essere sotterrato:
“Che mi dian sepoltura /Qui, nella radura, / Dentro il recinto, / Per restarvi accanto; / Dietro i
capanni,/ Per sentire i miei cani.”
Quindi, non c’è ragione per vedere la morte come una tragedia, perché ritorniamo alla natura
madre con essa. E’ vero che le persone care a noi non le vedremmo più, ma questa cosa sarà
soltanto per un tempo, perché prima o poi tutti ritorneremo ad essa, e alla fine saremmo tutti
insieme.
I morti non sono, nei paesi di Maramures, ma anche nei altri paesi della Romania, portati fuori del
paese, al confine, ma troviamo il cimitero al centro del paese, vicino alla chiesa, i cari avendo così
la possibilità di passare alle tombe ogni volta che vanno in chiesa, e non soltanto. In più, i morti
continuano a fare parte del mondo del paese, continuiamo a rapportarci a loro, non sono usciti
definitivamente dal nostro mondo e in alcuni momenti legati alle feste dell’anno si crede che loro
girano liberamente nel mondo dei vivi (per esempio dal giovedì prima della Pasqua fino alla festa
del 24 giugno, chiamata Rusalii 6 ).
In questo modo è collocato anche il Cimitero Allegro di Maramures, al centro del paese, vicino alla
chiesa. Non ha le croci in colori freddi, così come vediamo in altre parti del mondo, ma in colori
vivi, che caratterizzerebbero piuttosto il mondo di coloro che vivono ancora. Sulle croci non
abbiamo epitaffi tristi, ma immagini della vita dei morti e brevi poesie che scherzano in qualche
modo sulla vita di coloro che sono sotterrati là, che presentano in un modo scherzoso la loro vita.
Un esempio di una poesia del genere sarebbe: Sotto questa pesante croce / Giace povera mia
suocera/ Tre giorni se viveva ancora / Giacevo io e guardava lei. / Voi, coloro che passate di qui, /
Provate a non svegliarla, / Perché se torna a casa, / E’ di nuovo su di me con la bocca. / Ma io così
mi comporterò, / Che indietro non tornerà. / Coloro che leggete qui/ Come me non vi succeda/
Suocera giusta vi troviate, / Con essa bene viviate.”, che in un modo scherzoso riesce ad
rispecchiare l’eterno conflitto tra suocera e nuora.
Tante persone dalla Romania, specialmente del mondo rurale, quando parlano della morte
parlano in piena serenità, la aspettano come qualcosa di normale. Si preoccupano soltanto prima
di venire di compiere quanto più possibile dei nobili gesti, di non aver fatto del male a nessuno,
per poter partire con serenità, per essere in armonia con tutti coloro che lasciano indietro.
Anche uno dei proverbi romeni, sintesi della saggezza del nostro popolo, dice in un modo molto
significativo: “Chi teme la morte ha perso la vita.” Quindi, il popolo romeno sa che la vita è un
dono, che deve essere vissuta quanto più bello, in armonia con gli altri e con la natura, ma che la
morte è una cosa ugualmente naturale e che non ci deve fare paura. Sarebbe non soltanto inutile,
perché impossibile evitarla, ma ci farebbe perdere anche i belli e i brevi momenti della vita che ci è
stata donata, in piena consapevolezza della verità espressa della canzone popolare che dice:
“Questa vita non è molto facile, / Ti alza e ti’nabissa / Questa vita è passeggera / Come i petali del
fiore leggero.”

5 Traducere de Geo Vasile;
6 La festa conosciuta con il nome di Pentecoste in italiano;

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Numero 8

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

26 marzo 2019

Carillon dei pensieri

I romeni al Monte Athos. Uno sguardo storico

di Armando Santarelli

Si può essere cristiani ortodossi, cattolici, protestanti, o fedeli di un’altra religione, e persino agnostici o atei, ma chiunque abbia maturato una sufficiente conoscenza del Monte Athos non può ignorarne la bellezza, l’unicità, la sacralità.
La Santa Montagna dell’Ortodossia è l’ultima grande oasi della Cristianità, e rappresenta ancor oggi un modello di vita monastica. Come usano ripetere i monaci haghioriti, «all’Athos comanda la tradizione», una tradizione spirituale millenaria che ha fatto dell’Agion Oros il baluardo della fede ortodossa.
Pur non essendo una vera e propria Repubblica monastica (perché fa parte dello Stato greco), il Monte Athos gode di una grande autonomia amministrativa. Le norme che definiscono il suo status giuridico sono contenute nella Carta Costituzionale della Santa Montagna, approvata nel 1924 e oggi incorporata nella Costituzione dello Stato Greco del 1975, un articolo della quale dispone: «La Santa Montagna è governata, conformemente al suo regime, dai venti Sacri Monasteri tra i quali è suddivisa la penisola athonita (…) Non è permesso alcun mutamento nel sistema di governo, nel numero dei monasteri, nel loro ordine gerarchico e nelle loro relazioni con le fondazioni subordinate».
Come risulta evidente, questa norma cristallizza la seguente situazione: il territorio del Monte Athos è governato da venti Sacri Monasteri; di questi, 17 sono nelle mani dei greci, 1 (San Panteleimon) appartiene ai russi, 1 (Chilandari) ai serbi, e un altro ancora (Zographou) ai bulgari. Impossibile non porsi una domanda elementare: perché i greci, i serbi, i bulgari e i russi devono avere all’Athos un loro monastero, e i romeni no?
Mi rendo conto che una tale questione assume un valore relativo se la si inquadra in un contesto religioso. Inoltre, il Monte Athos si pone da sempre come il centro dell’ecumenismo ortodosso, e sin dall’inizio della sua storia vi dimorano monaci provenienti da ogni angolo del mondo. Ma la disparità rimane: a differenza di altre Nazioni, la Romania – Paese di comprovata osservanza religiosa, con 20 milioni di cittadini, l’87% dei quali di fede ortodossa – non ha all’Athos un monastero di governo, e di conseguenza è priva di rappresentanza nella Iera Kinòtis (la Sacra Comunità), l’organo amministrativo più importante dell’Agion Oros.
Più volte i romeni hanno chiesto di vedere elevata al rango di monastero una delle loro skite, la skiti Prodromu (Sfȃntului Ioan Botezătorul), che dipende dal monastero della Grande Lavra; tuttavia, le reiterate istanze romene sono tutte cadute nel vuoto.
Ora, io penso che in casi di tale importanza ed evidenza appellarsi alla tradizione e alle norme giuridiche esistenti risulti insufficiente e ingiusto. Infatti, le regole che governano l’Athos dal punto di vista amministrativo sono state redatte da esseri umani, e come tali possono non essere più condivise, o non più attuali, o non più adeguate.
C’è un’altra questione riguardante i romeni che per anni ha destato le perplessità di chi frequenta ed ama il Monte Athos. Come tutti sanno, la Romania possiede sul proprio territorio numerosi e splendidi monasteri, dove nuove leve del monachesimo continuano ad affluire con regolarità. È comprensibile che alcuni di questi novizi e monaci desiderino vivere (o proseguire) al Monte Athos la loro vocazione; è accaduto, però, che all’assenso pronunciato dai Monasteri athoniti e dalla Iera Kinòtis facesse riscontro il diniego da parte del Governo Greco.

In riferimento alle questioni accennate, già nel 1993, in una riflessione pubblicata sulla rivista teologica Sobornost, il Vescovo Kallistos Ware, indiscussa Autorità nell’ambito dell’Ortodossia, si chiedeva: «Perché i romeni dovrebbero essere trattati in questo modo? Quale minaccia possono rappresentare per il Governo greco?» Ricordando l’esemplare comportamento dei monaci romeni nel corso della millenaria esistenza dell’Athos, e gli eccellenti rapporti fra la skiti Prodromu e la Grande Lavra (il monastero da cui dipende), il Vescovo Kallistos puntualizzava fermamente: «Un fatto è al di là di ogni disputa. L’esclusione dei non greci è senz’altro contraria ai trattati che governano la Santa Montagna, alla Carta Costituzionale del Monte Athos e ai princìpi della Comunità Europea, di cui la Grecia fa parte. È contraria, soprattutto, all’ideale che ha ispirato la repubblica monastica dell’Athos sin dalla sua fondazione avvenuta più di un migliaio di anni fa».
L’ingiusto trattamento riservato alla Romania appare ancor più criticabile alla luce di un dato di enorme rilevanza. Tutti gli studi storici relativi al Monte Athos dimostrano con chiarezza che non esiste cenobio della Santa Montagna alla cui ricostruzione, restauro o mantenimento non abbia contribuito un principe o un dignitario ecclesiastico romeno. Il costante sostegno della terra romena si rivelò particolarmente importante nei secoli successivi alla caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453), perché i regnanti moldavi e valacchi rimasero il principale scudo protettivo della cultura bizantina e della religione ortodossa.
A Karyes, la capitale del Monte Athos, sorge la chiesa del Protaton, la costruzione più antica della Santa Montagna e la madre di tutte le chiese athonite. Edificato nel X secolo, il Protaton fu completamente rinnovato nell’anno 1508 grazie all’intervento del voivoda di Moldavia Bogdan III cel Orb, figlio di Ştefan cel Mare. Il monastero della Grande Lavra, il più antico dell’Athos e primo nella gerarchia, fu interamente ricostruito all’inizio del XVI secolo dal principe valacco Neagoe Basarab, che riedificò, fra il 1512 e il 1515, anche il monastero di Dionysiou. Il monastero di Vatopedi, secondo nella gerarchia athonita, venne parzialmente ricostruito nel 1526 dal voivoda di Valacchia Radu di Afumați, e alla fine del XVII secolo, il principe Constantine Voda Brȃncoveanu, canonizzato dalla Chiesa Ortodossa, donò al monastero 21.000 aspri, (monete d’argento turche), somma enorme per quei tempi. Il cenobio dei georgiani, Iviron, terzo nella gerarchia athonita, nel 1505 ricevette una donazione di 15.000 aspri da parte del re di Valacchia Radu Şerban. Il monastero di Koutloumousiou fu letteralmente rifondato nel XIV secolo dall’igumeno Chariton (futuro Metropolita valacco) grazie al supporto finanziario del voivoda di Valacchia Nicholas Alexander Basarab. Per il monastero bulgaro di Zographou entrano in scena alcuni dei più grandi principi moldavi, fra i quali Alexandru cel Bun, benefattore del cenobio nei primi decenni del XV secolo, e Ştefan cel Mare, che assicurò un concreto sostegno verso la fine del XV secolo. Dochiariou fu ricostruito e affrescato nella seconda metà del XVI secolo a spese del principe moldavo Alexandru Lăpuşneanu. Anche Karakalou fu completamente riedificato da un voivoda moldavo, Petru IV Rareş, e così Grigoriou, di nuovo per iniziativa di Ştefan cel Mare. Considerando che anche Xenophontos, San Panteleimon, Philotheou, Aghiou Pavlou, Stavronikita ed Esphigmenou hanno beneficiato di donazioni monetarie e territoriali da parte di diversi regnanti romeni, si può affermare senza tema di smentita che nessun Paese ortodosso ha supportato la Santa Montagna più generosamente della Romania.
Se da un lato la secolare Storia athonita è stata irrispettosa di questi meriti, da un altro ha voluto diversamente, perché le due skite romene dell’Athos (la già citata Prodromu e la skiti Sfȃntul Dimitrie (denominata anche Schitul Lacu) hanno delle peculiarità che le rendono davvero straordinarie.
La skiti Lacu dipende dal monastero di Aghiou Pavlou e prende il nome dal fatto di essere localizzata in una gola naturale (lakkos) che dal Mar Egeo sale impervia e ombrosa verso il Monte Athos. La cosa stupefacente è che le dimore monastiche della skiti (quattordici in tutto) che si susseguono a mano a mano che ci si innnalza, sono immerse in un ambiente selvaggio e incontaminato che ricorda moltissimo i paesaggi e le gole carpatine care a qualsiasi romeno.
Quanto alla skiti Prodromu, comincio col dire che la sua bellezza regge il confronto con qualsiasi grande cenobio athonita. In effetti, ha l’aspetto di un monastero e un’amenità che si apprezza dal primo sguardo. La facciata simmetrica e bianchissima, i tetti di ardesia sui quali svettano i dolci cipressi, la solenne torre campanaria, le cupole cilestrine del kyriakon (la chiesa principale) sormontate da croci dorate, l’azzurro dell’Egeo sullo sfondo, gli orti e i giardini che fiancheggiano gli edifici sul lato sud, il Monte Athos, nella sua intera estensione, ad ovest. Intorno, più di mille specie vegetali, sentori di latifoglie centenarie e di macchia mediterranea; all’interno del monastero, silenzio, pace, preghiera.
L’atmosfera di spiritualità e lo splendore dell’architettura monastica di Timiu Prodromu si rendono evidenti a qualsiasi pellegrino del Monte Athos; ma un altro fattore contribuisce a fondare il privilegio di cui gode la skiti del Precursore. Farà piacere a tutti gli amici romeni sapere che Prodromu è l’insediamento monastico più vicino ai due luoghi più sacri dell’intero Monte Athos. Infatti, a soli cinque minuti di cammino dalla skiti è situata la grotta in cui visse Sant’Atanasio, il fondatore del cenobitismo athonita, colui che nell’anno 963 d.C. edificò con le proprie mani il primo monastero della Santa Montagna, la Grande Lavra. E prendendo un sentiero boscoso che si diparte a un centinaio di metri dalla skiti e punta verso ovest, si raggiunge in una quarantina di minuti un altro dei luoghi-simbolo dell’Athos, Agios Petros, il sito in cui, nella seconda metà del IX secolo, visse San Pietro l’Athonita, il primo eremita di cui abbiamo sicure notizie storiche. Dunque, i romeni hanno la loro massima comunità monastica nel vero cuore della Santa  Montagna dell’Ortodossia.

Ma in quale epoca si colloca la prima presenza di romeni al Monte Athos? Alcuni studiosi ipotizzano che assieme ai «Valacchi del Nord», insediatisi nei pressi della penisola athonita nel IX secolo, siano giunti all’Athos anche dei monaci, desiderosi di una piena vita ascetica; tuttavia, non esistono documenti in grado di confermare questa tesi. È accertata invece, intorno al 1360, la presenza di monaci romeni nel monastero di Koutloumousiou, appena rifondato (come abbiamo già visto) grazie alla munificenza di Nicholas Alexander Basarab.
E’ altresì documentato che intorno al 1750 alcuni romeni, sotto la guida spirituale dello ieromonaco Makarios, conducevano una vita semi eremitica intorno alla cappella del Precursore San Giovanni il Battista, sita nella Vigla, cioè la punta della penisola athonita. Sappiamo anche che ai primi dell’800 nella cella di San Giovanni dimoravano tre monaci romeni: lo ieronda Iustin e i suoi discepoli Grigorie e Patapie. Alla morte di Iustin, avvenuta nel 1816, Grigorie e Patapie chiesero al monastero della Grande Lavra di poter fondare una skiti dedicata al Precursore. Qualche anno dopo, nel 1820, la Lavra stese un atto di assenso, in cui precisava le condizioni da osservare per la nascita della skiti, fra le quali assumevano rilievo la dipendenza dalla stessa Lavra e l’adozione del regime cenobitico. Purtroppo, l’anno seguente (1821) segnò l’inizio della Guerra di Indipendenza Greca, e i progetti per la fondazione della skiti dovettero essere abbandonati.
Da questo momento, la storia di Timiu Prodromu assume caratteri quasi romanzeschi. I monaci Grigorie e Patapie, tornati in Patria con il preliminare di fondazione della skiti, entrarono nel monastero di Neamț, dove morirono prima che il conflitto greco-turco avesse termine.
Quasi trent’anni dopo, nel 1850, Nifon e Nectarie, due monaci provenienti dal monastero moldavo di Horaița e stanziati al Monte Athos a Kerasia, furono informati dell’esistenza del documento riguardante la fondazione di una skiti sul sito della cappella del Precursore. Partiti immediatamente per il monastero di Neamț, i monaci moldavi ritrovarono il preliminare e tornarono al Monte Athos. La Grande Lavra confermò la decisione presa nel 1820, e nel 1851 Nifon e Nectarie rilevarono la cella di San Giovanni il Battista da alcuni monaci greci, dietro il pagamento di 7.000 lei. Ora occorrevano i fondi necessari per l’edificazione della skiti; fu Nifon a tornare di nuovo in Patria, dove ricevette le generose donazioni di molti conterranei, in primis la somma di 3.000 galbeni offerta da Grigorie Alexandru Ghica, Governatore della Moldavia.
Nel 1856 arrivò la concessione del sigillo da parte del Patriarcato di Costantinopoli e l’anno seguente fu posata la prima pietra della chiesa, che venne solennemente consacrata dieci anni dopo, il 21 maggio 1866, e dedicata al Battesimo del Signore. La scelta del primo dikaios (l’abate, o priore) non poteva che cadere su Nifon, il quale guidò la skiti per quattro anni. Nel 1870, coronata pienamente la sua missione, Nifon si ritirò con alcuni discepoli in una cella vicina alla grotta di Sant’Atanasio, dove visse in santità sino alla morte. I suoi resti mortali, dinanzi ai quali arde perennemente una lampada, sono conservati nella cripta posta sotto l’altare maggiore del kyriakon di Prodomu.
A Nifon subentrò lo ieromonaco bucarestino Damian, abate sino al 1890, che continuò il buon governo spirituale della skiti, senza trascurare quello materiale, che vide la costruzione dell’arsanas (il porticciolo) e di nuove celle per monaci e pellegrini.
Santi uomini e grandi amministratori furono anche i due successivi abati, gli ieromonaci Ghedeon e Antipas, entrambi originari del distretto di Prahova. Il dikaios Ghedeon è ricordato per la profonda religiosità e umiltà; celebrava la liturgia, personalmente, ogni giorno. Terminato il mandato, anch’egli si ritirò in solitudine in una piccola cella, vivendo nell’esichia sino alla fine dei suoi giorni. Il quarto abate, Antipas, dotò la skiti di nuove strutture, fra le quali i laboratori per la pittura, per la lavorazione del legno e del marmo, e creò persino un piccolo museo. Mostrò tutta la sua energia quando dovette affrontare le urgenti riparazioni della chiesa e degli altri edifici gravemente danneggiati dal terremoto del 1904.
Nei decenni successivi, la skiti Prodromu conobbe altre traversie: il mutamento del calendario nell’anno 1924, le Guerre Balcaniche, le due Guerre Mondiali e l’avvento del regime comunista. Quest’ultimo si rivelò particolarmente rovinoso: al mancato invio di nuovi monaci si aggiunse la confisca delle proprietà possedute dalla skiti, con il conseguente depauperamento delle risorse necessarie al suo mantenimento. Dalle cento e più presenze registrate al tempo dell’abate Antipas, Timiu Prodromu si ritrovò ad essere abitata, nel 1976, da soli 10 monaci, quasi tutti vecchi e malati. Più di vent’anni dopo, nel 1998, il giornalista e critico letterario Christopher Merrill trovò a Timiu Prodromu lo stesso numero di monaci, e un ambiente piuttosto depresso. Nell’ottimo Things of the Hidden God, Merrill testimonia che il kyriakon era chiuso al momento della liturgia; la funzione religiosa venne celebrata in una piccola cappella, alla presenza di pochi monaci e di un paio di laici.
Ma il Monte Athos ha sempre saputo risorgere dai momenti di crisi che hanno segnato la sua storia. Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, grazie agli aiuti dell’intera Romania, iniziarono i lavori di ristrutturazione, che hanno riguardato ogni struttura di Prodromu, e che continuano ancor oggi con la sistemazione della strada di accesso e degli edifici esterni. Arrivando dalla Lavra, e scorgendo all’improvviso la skiti, si ha l’impressione, e poi la certezza, di trovarsi dinanzi ad un raro gioiello architettonico. Quanto alla popolazione monastica, dai primi anni del Duemila è gradualmente aumentata e oggi Prodromu è abitata da una quarantina di monaci.

Essendo una delle fondazioni monastiche più recenti, non sono molte le testimonianze dei pellegrini-scrittori relative alla skiti del Precursore. Una di queste, però, riveste un carattere eccezionale. E’ quella dell’inglese Athelstan Riley (1858-1945), scrittore e autore di inni sacri, che visitò l’Athos nel 1883, lasciando un accurato resoconto della sua esperienza athonita, Athos or the Mountain of the Monks, opera pubblicata a Londra nel 1887.
Dopo aver visitato la Grande Lavra, Riley percorre il sentiero, orlato da odorosi arbusti, che conduce a Timiu Prodromu. L’accoglienza da parte dei monaci romeni è calorosa, il cibo ottimo, le stanze per gli ospiti si rivelano fra le più comode e pulite del Monte Athos. Assente l’abate Damian, è lo ieronda Esaias a farne le veci, dimostrando una squisita cortesia (one of the politest man I have ever met, scrive Riley). Entrato nella chiesa, l’inglese nota una splendida icona della Vergine; i monaci precisano subito che è un’icona miracolosa, al che l’ospite non può evitare di obiettare che ha tutta l’apparenza di un’icona moderna.
«Lo è», replica Esaias, «è stata dipinta nell’anno 1860. Per di più, abbiamo tentato più volte di farne una copia, perché molta gente in Romania vorrebbe vederla, ma nessuno vi riesce». A questo punto, Riley e compagni diventano curiosissimi di ascoltare la storia dell’icona dalle labbra di Esaias, che è tra i fondatori della skiti e ne conosce tutte le vicende.
Il racconto del monaco, come raccolto da Riley, non coincide perfettamente con ciò che le odierne pubblicazioni riportano nelle loro pagine; opero dunque una sintesi, come segue.
Quando la costruzione della chiesa di Prodromu fu ultimata, il dikaios Nifon si mise in cerca di un’icona della Vergine. Poiché nessuna chiesa athonita voleva privarsi delle proprie, l’abate decise di recarsi nella sua terra natale, e commissionò l’opera al miglior artista che poté trovare. Era un vecchio monaco di Iaşi, Iordache Nicolau, il quale si mise subito al lavoro, onorato di donare un’opera al Monte Athos. Dopo un po’, tuttavia, il monaco tornò dal dikaios, dicendogli che temeva di dover abbandonare il compito affidatogli, perché si era scoperto incapace di dipingere appropriatamente i volti della Vergine e del Bambino. Il dikaios rassicurò l’iconografo, invitandolo a recitare il canone e a pregare.
Assecondando il consiglio dell’abate, il vecchio monaco coprì la pittura con un panno di lino, chiuse lo studio e si ritirò in preghiera, implorando la Vergine di aiutarlo ad ultimare l’opera. Il giorno seguente, entrato nello studio, il pittore si prostrò dinanzi all’icona, sollevò il panno con cui l’aveva coperta e vide che essa recava i volti del Bambino e della Madre di Dio, splendidamente dipinti.
A seguito di questo miracolo, l’icona della Vergine Prodromița è annoverata fra le pochissime icone acheropite (non fatte da mano d’uomo), e come tale oggetto di una profonda e costante venerazione da parte di tutto il popolo ortodosso.

Per quanto riguarda la Prodromu odierna, ne ho diretta esperienza, perché dagli inizi del Duemila vi sono stato ospitato per tre volte. La skiti comunica immediatamente l’impressione di un centro pulsante di vitalità ed efficienza; ma soprattutto, a Prodromu ho colto un clima di crescente fervore religioso, in virtù del buon governo dell’abate Atanasie Floroiu e della guida spirituale da parte dell’abate stesso e dello ieronda padre Iulian.
Nel 2017, dopo la liturgia mattutina, mi sono intrattenuto con due novizi. Le domande che ricorrono più spesso fra pellegrini e monaci non tardarono ad arrivare. Quasi all’unisono, i due giovani mi chiesero il motivo che mi aveva spinto al Monte Athos; a mia volta, domandai perché avessero abbracciato il monachesimo, e perché avessero scelto di viverlo nella Santa Montagna.
La mia risposta fu piuttosto vaga e, presumo, deludente: dissi che era stata la curiosità, unita alla ricerca di una pace e di un equilibrio che non avevo ancora trovato.
Le loro risposte, annunciate da lievi sorrisi, furono non meno sincere, e molto più pregnanti. Il primo confessò che nel mondo viveva male, e che anch’egli aveva cercato la pace interiore, che a differenza di me aveva trovato.
Il secondo, dopo avermi fissato bonariamente, disse: «Io ero fidanzato, con la mia ragazza parlavamo già di matrimonio. Poi, all’improvviso, Dio mi ha chiamato qui. Sì, è un mistero. Ma tutta la nostra vita è un mistero, no?»
Annuii, e iniziammo a parlare d’altro. Ma durante il cammino verso la Lavra, un pensiero mi ossessionava. Io – riflettevo – mi aggiro per il mondo sempre indaffarato, frenetico, facendo mille cose, ma rimango una persona insoddisfatta e inquieta. Questi giovani fanno ogni giorno le stesse cose, che all’Athos si ripetono in modo uguale da migliaia di anni, eppure il loro spirito prorompe di gioia e serenità.
Poi, all’improvviso, tutto mi fu più chiaro. No, la parabola spirituale di quei giovani non era un mistero. Nella loro vocazione, e nella rifioritura di Timiu Prodromu si era certamente manifestata la volontà del Signore. Ma come non pensare che essa si fosse innestata sul fondamento cristiano che ha sempre caratterizzato il popolo romeno?

foto: Armando Santarelli

Copyright: Armando Santarelli

Fonte:

http://www.orizonturiculturale.ro/ro_studii_Armando-Santarelli-2.html

 

“Dragobete bacia le ragazze”
Dragobete, la festa dell’amore per i rumeni.
di Lidia Popa

Usanze e tradizioni antiche, superstizioni e credenze popolari di Dragobete.

Il 24 febbraio si celebra il Dragobete, la festa dell’amore per i rumeni. Nella mitologia rumena di Dragobete, significa il dio della giovinezza, della gioia e dell’amore e ha origini antiche. Dragobete è un personaggio trasmesso da una generazione all’altra, dai vecchi Daci e in seguito trasformato in un giovane protettore e patrono dell’amore. Seguendo il filo di alcune leggende popolari, sembra che Dragobete, che è anche chiamato “Testa di primavera”, “Il dirompente” o “Il fidanzato degli uccelli”, non fosse altro che il figlio di Baba Dochia, considerato un ragazzo estremamente bello e amorevole con le ragazze e le donne che erano sedotte. Dragobete è rimasto fino ad oggi come il simbolo supremo dell’amore autoctono in Romania.

Antiche usanze e tradizioni di festa Dragobete. “Dragobete bacia le ragazze”

Festa Dragobete ha un simbolismo ricco e interessante. Dragobete in sostanza combina un inizio e una fine. L’inizio di una nuova stagione e la natura rigenerante dei piaceri mondani per finire con l’inizio della Quaresima di Pasqua.
Nei tempi antichi in alcune aree fino ad oggi, questa giornata di grande festa, giovani vestiti con abiti eleganti, adibiti come usanza per raccogliere nei boschi, si riuniscono per raccogliere i primi mazzi di fiori primaverili: viole, bucaneve, fiore di Pasqua. Raccogliere fiori, continuare con gioia e canti, con una specie di gioco chiamato “volare”. A mezzogiorno, le ragazze iniziano a fuggire dal villaggio ed i ragazzi ad inseguirle, cercando di catturarli con un bacio. Se al ragazzo era cara la ragazza, è allettati in seguito che si verificano e si baciano, assumendo l’impegno equivalente considerato l’inizio dell’amore tra i due. Verso sera, il fidanzamento sarà annunciato nella comunità del villaggio e per i membri della famiglia.

Coloro che parteciparono alla festa, rispettando la tradizione, furono considerati benedetti quell’anno. Saranno abbondanti, essendo liberi da malattie e febbre. Secondo alcune superstizioni del passato, quelli che non celebrano questa giornata sono stati puniti, non possono amare quello stesso anno. Questa abitudine ha provocato la diceria o minaccia scherzosa: “Dragobete bacia le ragazze.” Se il tempo era cupo in questo giorno, anche se era molto freddo, pioveva o nevicava, i giovani si sono riuniti in una casa di Dragobete, per spendere, fare amicizia, di prendere parte giochi e scherzi a parte. In alcune zone, le ragazze erano solite lanciare accuse’incantesimi per il fascino dell’abominazione fatta contro le rivale innamorate. Inoltre, i giovani ragazzi aumentano leggermente la loro forma disegnando sul braccio una croce, adempiendo il loro giuramento dicendo, come tagli di rimanere in vita fratelli di sangue.

In questa occasione, gli anziani del villaggio hanno prestato particolare attenzione agli animali nel giardino, ma anche agli uccelli. Gli anziani credevano che in quel giorno gli uccelli scelsero la loro compagna per la vita e furono costretti a costruire i nidi. Alla fine dell’inverno e all’inizio della primavera, Dragobete officia ingaggia degli uccelli nel cielo. Il massacro degli animali è proibito in questo giorno. C’è la convinzione che non ti è permesso di interferire con lo scopo di accoppiare gli uccelli.
In alcune parti del paese, in questo giorno, i giovani uniscono i loro destini attraverso l’impegno, promettendo la loro fede e il loro amore.

Superstizioni e credenze popolari di Dragobete

Nei tempi antichi, era consuetudine per le ragazze non sposate raccogliere la neve che si era lasciata alle spalle, la neve conosciuta come “la neve della fata”. Si riteneva che l’acqua di fusione risultante avesse proprietà magiche nell’amore e negli incantesimi dell’amore, ma anche nei rituali di bellezza. Si credeva che questa neve fosse nata dal sorriso delle fate. Le ragazze stavano pulendo la faccia con quest’acqua per diventare belle e attraenti come le fate. Si dice che in questo giorno le ragazze debbano incontrarsi con i maschi. Altrimenti, non avranno parte dell’amore per tutto l’anno. Allo stesso tempo, nei villaggi si credeva che le ragazze che toccano un uomo di un villaggio vicino saranno adorabili tutto l’anno.

In alcuni villaggi della Romania, le radici di una pianta particolare chiamata elleboro bianco (“spânz”) vengono rimosse dalla terra che le persone usano come cura per la guarigione di alcune malattie. È imperativo che in questo giorno gli uomini siano in rapporti cordiali con le femmine. Gli uomini non sono autorizzati a molestare le donne, né a fare pettegolezzi, perché si aspettano una primavera di sfortuna e un anno che non è affatto favorevole. Sia i ragazzi che le ragazze hanno il dovere di rallegrarsi in questo giorno per avere amore per tutto l’anno. Se c’è l’amore deve di rimanere in vita per tutto l’anno, i giovani che formano una coppia devono baciare questo giorno. In questo giorno non sono consentiti lavori sul campo, tessuti, cucito, faccende domestiche. Invece, la pulizia è ammissibile, essendo considerata una causa di crescita e freschezza.

Non ti è permesso piangere il giorno di Dragobete. Si dice che le lacrime che scorrono in questo giorno portano guai e follia nei prossimi mesi. Le ragazze mettono il loro basilico essicato sotto il cuscino. In alcune zone della Romania, la vigilia di Dragobete è simile al simbolismo con Epifania. Le ragazze, curiose di scoprire il loro promesso, mettono il basilico sotto il cuscino, credendo che Dragobete li aiuterà a trovare il vero amore.

copyright: diritti d’autore riservati

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© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca sufletului

Numero 5

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 giugno 2018

Carillon dei pensieri

Il viaggio

di Iana De Muro

Il viaggio ha sempre suscitato in me una grande attrattiva. Viaggiavo già tra i banchi di scuola, quando, studiando la geografia, grazie alle belle foto riportate nei sussidiari, con la fantasia correvo nei luoghi rappresentati dalle immagini.

Visitavo molti angoli della terra: posti di montagna, paesaggi lacustri, città di mare. Quando ho avuto l’opportunità di visitarli veramente, però, quanto accattivante si è rivelata la realtà!

L’imponenza e la grandiosità dei monumenti, la bellezza degli spettacoli naturali, li ho potuti apprezzare grazie al dono della vista.

Più volte ho ringraziato Dio per questo grande dono. Le molteplici immagini che, di volta in volta, percepiamo, non solo ci regalano emozioni straordinarie, nel momento in cui le scopriamo, ma, come delle istantanee, rimangono impresse nella memoria. Proprio per questo, dovremmo ringraziare Dio due volte: perché vediamo le immagini nel momento in cui si presentano e perché possiamo ritrovarle con l’occhio della mente, anche a distanza di tempo. Basterebbe pensare ogni tanto a chi è nato cieco per cancellare dal nostro vocabolario il termine lamento.

I libri ci permettono di immaginare le cose, ma non ci fanno certo sentire il profumo della terra o ascoltare la voce del vento, il mormorio dei corsi d’acqua, il profumo del salmastro o il suono metallico delle chiglie nei porti, quando le barche dondolano, mosse dalla brezza. E nemmeno ci fanno assaporare il gusto di un piatto tipico o toccare materialmente una pietra, un fiore, una pianta. Perciò, se viaggiare con la fantasia è emozionante, viaggiare realmente è vivere a trecentosessanta gradi.

É incredibile constatare che, nonostante la fatica, quando siamo in viaggio, non ci sentiamo neanche stanchi: la voglia di vedere quante più cose possibili scatena endorfine, che favoriscono uno stato di benessere sia del corpo sia della mente. E quando la sera, stremati dalla fatica, andiamo a letto, pensiamo già a tutte le cose nuove che ci aspettano l’indomani e ci addormentiamo con la mente rivolta al viaggio verso l’ignoto, il quale altro non è che desiderio di assoluto e di conoscenza.

Abbiamo sempre considerato l’esistenza terrena come momento di passaggio, punto obbligato per giungere alla dimora eterna. Ebbene, per me la vita è l’esaltazione di questo passaggio, essendo un cammino il cui scopo è un desiderio continuo di infinito e di assoluto. Del resto, lo stesso significato etimologico di desiderare, de sidere, richiama le stelle e la nostra continua aspirazione verso di esse derivante dal senso di mancanza che provocano in noi.

Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, asseriva Dante, suscitando in me il fascino della conoscenza.

Il grande regista russo Andrej Tarkovskij sosteneva che il viaggio è ricerca perché, in qualsiasi parte del mondo l’uomo vada, in fondo, è la propria anima che va cercando. La scoperta di questa straordinaria frase, mi ha aperto la mente a nuovi orizzonti e, ogni volta che intraprendo e concludo un viaggio, mi sento davvero arricchita interiormente. Da una parte, c’è il cammino materiale delle cose che vediamo attraverso i sensi, e dall’altra, il cammino spirituale, nei cui sentieri non ci sono né piante, né monumenti, né colori, né profumi, ma tante altre cose con le quali dobbiamo misurarci, passo dopo passo: limiti umani, difetti da superare, egoismo, paure, dubbi, incertezze, ma anche sogni e capacità di essere perseveranti. A muoverci è un forte desiderio di raggiungere il nostro Sé, il quale non deve, comunque, costituire la meta finale, ma semmai un punto intermedio da cui ripartire, rigenerati ed arricchiti, perché, così inteso, il viaggio non finirà mai finché l’uomo avrà vita.

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Numero 2

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 settembre 2017

Carillon dei pensieri

SOCRATE E IL TENENTE COLOMBO

Metodologia di un’indagine

di Gianni Mazzei

Capitolo IV

 

Metodologia dell’indagine

 

Penso che ci sia, specie nella vita di Socrate,  un rapporto intrinseco tra il metodo dell’indagine e l’obiettivo da raggiungere: si concretizza in lui l’assioma che scoprire il metodo (e viceversa) è trovarne il contenuto, la struttura e la finalità.

Il punto di partenza sarà allora il mito di eros, raccontato come al solito dallo stesso Socrate nel “Il Simposio” e che rispecchia la funzione del filosofo.

Mi soffermo solo sulle cose che sono inerenti al mio dire.

La manchevolezza che prende dalla madre non è altro che il “motivo” della ricerca: la verità.

Non tanto la propria: o meglio la propria in quella funzione di servizio, ad aiutare gli altri, per  trovare se stessi.

E’ un problema fondamentale questo, che stravolge anche il pregiudizio, inveterato, e duro a morire (anche per colpa di Nietzche) che la filosofia di Socrate sia mero intellettualismo: agisce bene chi sa, con questo venendo meno la responsabilità di chi non sa e venendo meno anche  la funzione autonoma (e quindi una visione  illanguidita) della libertà.

Niente di più errato.

Socrate, riprendendo il paragone con la madre ostetrica, sostiene che egli aiuta chi è gravido di verità: ma aver dentro la verità vuol dire, come per un rapporto amoroso,  essere stato a contatto con il seme  della verità, avere terreno fertile, saper custodire il germe, altrimenti sarà gravidanza isterica e non nascerà niente.

E come nella vita fisica, tolta la sterilità strutturale, non ci si ingravida se non si hanno rapporti di amore (il sesso non è finalizzato alla creazione), se non si desidera avere un figlio e saperlo portare, con tenera e attenta delicatezza, in grembo, così avviene per la verità: nei suoi dialoghi, Socrate incontra persone mal disposte verso la verità, senza l’humus fertile dell’umiltà ad accogliere la rivelazione del vero.

Il fatto che da loro non nasca la conoscenza e la sapienza, non significa che non hanno colpa: la colpa, la responsabilità stanno all’inizio di un processo di crescita, rifiutato a priori per la presunzione di sapere.

Che metodologia  adotta Socrate per aiutare l’altro allo svelamento della verità e, facendo ciò, per concretizzare se stesso,diventando vero filosofo come è vero detective chi sa scoprire la verità di un delitto?

Il delitto dell’animo è la presunzione, la pigrizia, il frastuono delle cose, gli averi: Socrate interviene per sgomberare il campo da inutile sterpaglia, dalla gramigna, dal loglio per far germogliare, come nell’immagine del valore della parola parlata, il chicco di grano e portarlo a maturazione di spiga piena e bionda.

Da ciò si ha :

  1. democraticità dell’indagine socratica: adoperare il dialogo breve, con possibilità di scambio con l’interlocutore nel porre domande o dare risposte, indica essere alla pari con l’altro; non è la ieraticità o l’aristocrazia del pensiero dei sofisti.
  2. dire da parte di Socrate che, per capire l’oracolo di Delfi (essere considerato egli l’uomo più sapiente),  tra tutte le categorie di persone (politici, poeti, ecc.) gli unici ad avere una propria sapienza (anche se poi anche essi tendevano ad andare oltre) erano gli artigiani, è ribadire che il presupposto della conoscenza delle cose sta nell’aderenza alla realtà (manualità, abilità anche se sorretta da intelligenza e progettualità).
  3. per cui concludere, da parte di Socrate, figlio dell’ostetrica e dello scultore (rapporto dunque con la fisicità, con la manualità e le cose poste nello spazio), che il “sa di non sapere” non è altro che ribadire che il quotidiano, il buon senso vanno oltrepassati, in un orizzonte allargato, ma non vanno annullati.
  4. Difatti, solo con quelle categorie che non hanno il rapporto con la realtà o con quelle persone che pretendono, conoscendo la realtà, di essere ormai maestre di tutto e di vita (viene in mente l’episodio del ciabattino e del pittore Apelle  con la conclusione finale di non andare oltre la scarpa!), Socrate  adopera quei tranelli (al filosofo connaturati dal padre Poros)  come l’ironia, per disorientarle, far loro perdere la boria mentale e tentare, in ultima istanza, di far germogliare in loro  il seme del sapere.
  5. Che il “sapere di non sapere” non è dunque che  questo consapevole rimando oltre all’apparenza, il quotidiano, il buon senso, ad avere una permanente inquietudine, a “mantenere costantemente la frontiera” come dice Schelling lo si deduce dall’uso “metodico” del dubbio, come appare formulato nel “Menone”: “io, più di chiunque altro dubbioso, faccio sì che anche gli altri siano dubbiosi”.

Il sapere, alla fine, più che un contenuto, è una metodologia di ricerca, sgombra da pregiudizi e da orgoglio intellettuale e da sete di possesso: è quel senso di andare oltre, è l’anelito all’ infinito formalizzato poi da Lessing: meglio cercare che la preda, già in clima  preromantico.

Così alla fine metodo di ricerca e struttura e contenuto e obiettivo si identificano intrinsecamente.

 

COLOMBO

Il grimaldello di Socrate per arrivare al cuore dell’uomo è il non proporre una propria verità e nemmeno la verità, per quanto alta possa essere.

E’ proporsi come compagno di viaggio per una ricerca insieme della verità.

Per certi aspetti, in modo identico,  e per altri in modo divergente da Socrate, si comporta nel teatro della vita il tenente Colombo.

Certo, non si può, almeno nel senso di volontarietà e collaborazione, parlare per il tenente Colombo di ricerca della verità insieme all’assassino.

L’assassino, una volta capita la pericolosità di Colombo, tende a resistergli, nella forza indagativa della mente, con la presunzione di aver fatto le cose in modo ineccepibile, senza sbavature o punti deboli.

La  ricerca condotta da Colombo è, a mio avviso, come quella di Socrate, un’indagine aperta, non nel senso che si  procede a tentoni, non sapendo dove giungere. A me viene in mente la “rivoluzione copernicana” di cui parla Kant nella “critica della ragion pura”: nell’assimilare i dati sensibili, imprimiamo attivamente ad essi l’ordine e le leggi del nostro intelletto.

Entrambi, in effetti, sanno dove pervenire:ma lo fanno in modo dialettico, senza forzare le cose e le circostanze, mettendo a posto, nella maturazione dei tempi, i tasselli dell’evento o del ragionamento.

C’è, come detto precedentemente, nei personaggi della serie televisiva di Colombo, una scissione netta, rimarcata dal cinismo della superiorità della mente, tra intelletto elevato degli assassini e la loro aridità, nella quasi totalità, del cuore. In un episodio Colombo dice all’assassina, un’avvocatessa: “Lei non ha coscienza”.

E avviene un fatto singolare, nella metodologia interpretativa degli eventi: come già sosteneva Vico, quando a prevalere in un individuo o nazione è solo una qualità, fosse essa sentimento o fantasia o ragione, si ritorna al passato imbarbarito, e si è di fronte ai corsi e ricorsi storici.

Con l’innegabile debolezza della civiltà e il suo precipitare nel peggio.

Questa scissione, tra mente e cuore (inteso come legge morale) voluta  dai protagonisti che prediligono solo la mente e si credono così infallibili da “giocare” con la vittima e inizialmente anche con Colombo sicuri di farla franca, rende gli stessi vulnerabili già dall’inizio.

Essi, in questa temperie di esaltazione della logica, vengono traditi da quei meccanismi inconsci, quelle abitudini che, quando si è sereni, fanno parte del nostro agire, come habitat comportamentale, molto vicino all’esercizio della virtù per come la considerano Aristotele o Pascal.

La loro alta intelligenza frana, appena Colombo arriva sulla scena del delitto, per l’uso che il tenente fa  del buon senso, la sua conoscenza di meccanismi inconsapevoli, delle  piccole variazioni anche fisiche da egli  percepite:  sarà  una mano sudata, una scarpa allacciata in modo diverso, il dettaglio di far decantare il vino (mai avvenuto prima) ad un amico come nell’episodio “l’uomo dell’anno” o vedere l’anomalia del comportamento di chi,avendo cenato con un ristoratore morto avvelenato, quando viene chiamato dalla polizia e gli si comunica ciò, si presenta immediatamente dal tenente senza andare in ospedale per farsi fare  una lavanda gastrica.

Ecco: Colombo individua il colpevole dalla mancanza di spontaneità o dagli atteggiamenti  troppo studiati, calcolati, e, partendo da essi, poi costruisce i tasselli giusti.

L’ironia di  Colombo è anch’essa ambivalente come quella esercitata da Socrate: sia nel presentarsi fisicamente,sia nella scarna dialettica, si mimetizza per passare inosservato, per non sembrare pericoloso e insidioso all’assassino che così non solo non si mette in guardia,  quanto addirittura collabora, gongolando in sé nell’immaginare la magra figura che farà il tutore della legge  nel non cavare un ragno dal buco.

È ambivalente perché, dall’altra parte, tende ad esaltare, a incensare l’avversario, magnificandone intelligenza, tenore di vita, prestigio sociale.

E lo tallona come un mastino, con un’insistenza che esaspera: e quando l’assassino lo riprende, lo minaccia dicendogli che ha amicizie importanti e può farlo rimuovere da quel posto o fargli togliere quel caso, Colombo devia il discorso, fermandosi magari su qualche particolare piacevole della casa o del vestito dell’assassino o invocando la pignoleria del suo capo, il capitano,che lo costringe a dare logicità a tutti i punti oscuri, anche i più insignificanti, per potergli fare rapporto e evitarsi così una ramanzina.

L’aderenza alla realtà, alla fisicità, manualità invocata per Socrate nel suo procedere dialettico, si concretizza nel tenente Colombo in questo dare importanza al dettaglio dagli altri trascurato, a considerare le abitudini, i meccanismi del comportamento, nel prendere appunti.

Colombo pone tranelli: spesso sfida l’avversario sul suo stesso campo, ponendosi dinnanzi a lui come persona  entusiasta delle abilità dell’altro e con la voglia di imparare.

Anche il dire che dipende da un capitano, quando in effetti è sovrano nella sua indagine,  è un tranello: nelle pieghe indolori e asettiche della burocrazia invocata, egli può nascondere  la sua mossa vincente.

Colombo è ricercatore acuto della verità,non per prestigio personale o per fare carriera: c’è in lui,come in Socrate, la sofferenza interiore per un ordine turbato, per una dignità umana offesa.

Specie quando l’assassino è di un cinismo estremo: in quel caso, anche quel  suo senso di vicinanza all’uomo che sbaglia,sapendo  egli distinguere l’errore da  chi l’ha commesso, viene meno in Colombo: egli  fa notare al colpevole,  durante tutta l’inchiesta,  la sua disistima  per ufficializzarla a chiare lettere  alla fine con civile disgusto.

Come Socrate, il tenente sa distinguere il pericolo dell’illusione, la doxa dall’aletheia.

In diversi episodi in cui  l’assassino è un illusionista o un giocoliere o un manipolatore di anime (e ne deriva  una velata allusione al pericolo della democrazia da parte di questi incantatori e prestigiatori: come nel caso dell’illusionista con passato di S.S. e che assume un nome italiano: Santini), il tenente Colombo diventa ancora più attento e scrupoloso, aggiungendo al suo fiuto (fatto di intuizione e conoscenze preliminari e capacità  di correlare i dettagli) anche osservazioni teoriche,con distinzione tra occasione, modo, movente. Come Socrate, infine, il tenente Colombo è in costante contatto con l’umanità sofferente, tradita, debole e che tradisce:ne sa prendere le distanze con un comportamento semplice, rigoroso e ineccepibile; ma a livello emotivo e intellettuale non disprezza quasi mai, né è scettico che possa sorgere  un barlume di riscatto e pentimento. L’essere a contatto col delitto è anche capirne gli oscuri meandri e i buchi neri dell’animo umano.

Testo tratto dal “Socrate e il tenente Colombo” – Kadmo Edizioni – 2007

© Gianni Mazzei

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca sufletului

Gesù in India?

Una domanda cui non mancano risposte!

di Manuel Olivares

Incontrai per la prima volta la tesi suggestiva degli “anni indiani di Gesù” sul testo La Bibbia di Rajneesh ove si faceva cenno al fatto che Gesù, contrariamente a quanto veniva tramandato dalle origini della cristianità, sarebbe sopravvissuto alla crocifissione ovvero sarebbe stato calato dalla croce solo apparentemente morto.

Aiutato da alcuni discepoli più o meno “occulti” (Nicodemo Giuseppe d’Arimatea) e con la connivenza di Ponzio Pilato, avrebbe avuto modo di riaversi dal supplizio per poi prendere la via del Kashmir, dove sarebbe morto in tarda età.

Anni dopo avrei incontrato un testo interamente dedicato agli “anni indiani”: Sulle tracce di Gesù l’esseno, del professore kashmiro Maria Fida Hassnain. Ricordo lo divorai in pochi giorni. Eravamo agli albori del nuovo millennio e in libreria, in Italia, non si trovavano altri testi sull’argomento. Passa qualche anno e mi trasferisco a vivere buona parte del tempo a Varanasi, nell’India del nord, dove mi appassiono al testo di Holger Kersten Jesus lived in India tradotto in italiano, nel 2009, con il titolo La vita di Gesù in India.

La curiosità inizia a essere pressante, continuo a trascorrere lunghi periodi nel subcontinente, non perdendo l’opportunità di fare cruciali sopralluoghi sulle tracce, presunte, del grande nazzareno.

 

 

Srinagar e Rozabal, il santuario in cui riposerebbe Gesù

 

Il primo viaggio della mia ricerca risale al 2009, a Srinagar (capitale del Kashmir), allora posto abbastanza off limits di cui ho diffusamente parlato nel post Srinagar…in quel che resta della “terra dai fiumi di latte e miele” (http://www.viverealtrimenti.com/srinagar-in-quel-che-resta-della-terra-dai-fiumi-di-latte-e-miele/) e nel libro Gesù in India? (http://www.viverealtrimenti.com/gesu-in-india-2/)

Nella capitale kashmira riesco a trovare Rozabal, il celebre santuario da molti identificato come lo spazio in cui sarebbe sepolto il maestro palestinese.

Già nel 2009 non è possibile fotografarlo ma se ne trovano diverse fotografie in rete. Non è nemmeno accessibile nella sua parte interna, dove starebbe la tomba di Gesù assieme a quella di un importante santo musulmano: Syed Nasir Ud-Din.

Dopo la visita a Rozabal riesco a contattare il professore kashmiro Maria Fida Hassnain e a raggiungere la sua abitazione.

Il professore mi incoraggerà a procedere nelle ricerche, incoraggiamento di cui farò tesoro qualche anno più tardi.

Le due ipotesi principali sulla “vita di Gesù in India”

 

In breve, quali sono le principali ipotesi sul soggiorno o i soggiorni di Gesù in India? Sono fondamentalmente due e si riconducono ad altrettanti personaggi vissuti a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il primo un giornalista e viaggiatore russo: Nicholas Notovitch che, in un importante monastero buddhista vajrayana di scuola Drukpa del Ladakh (territorio nell’India dell’estremo nord, ai confini con il Tibet), avrebbe scoperto alcuni manoscritti in cui si dettagliava quanto avrebbe fatto Gesù nel subcontinente durante il periodo “di cui non parlano i vangeli” (tra i 14 e i 30 anni).

Notovitch tradusse i manoscritti dal tibetano e li fece pubblicare a Parigi, nel 1894, con il titolo La vie inconnue de Jésus Christ. Naturalmente questo gli attirò gli strali del Vaticano e venne presto accusato pubblicamente di frode. Diversi anni dopo, tuttavia, nel 1922, un importante membro dell’élite colta indiana: Swami Abedhananda (vicepresidente della celebre Ramakrisha Mission, rappresentata prestigiosamente, nel 1893, da Swami Vivekananda al Parlamento delle religioni di Chicago), compì un viaggio di verifica nello stesso monastero, confermando la presenza dei manoscritti e traducendone, a sua volta, una parte.

Il viaggio di Abedhananda è stato piacevolmente raccontato nel testo Swami Abedhanandaàs journey into Kashmir and Tibet in appendice al quale si trova anche una sua parziale traduzione, dal tibetano, dei manoscritti in questione.

Dopo Abedhananda, altri ricercatori in cerca degli stessi manoscritti non ebbero più modo di trovarli. Comprensibilmente erano spariti.

Il secondo personaggio cui si faceva cenno è stato il mistico musulmano Mirza Ghulam Ahmad, fondatore della celebre Comunità Islamica Ahmadiyya per avere maggiori informazioni sulla quale rimando al seguente articolo (http://www.viverealtrimenti.com/comunita-islamica-ahmadiyya-eterodossia-e-non-violenza/).

Questi avrebbe fermamente sostenuto che Gesù sopravvisse alla crocifissione, ovvero che sarebbe stato calato dalla croce in uno stato di svenimento o di “morte apparente” che dir si voglia. Curato con il celebre Marham I Isa (letteralmente: unguento di Gesù, la cui ricetta figurerebbe addirittura nel Canone di Avicenna), avrebbe avuto modo di riprendersi per lasciare presto, insieme alla madre, la Palestina.

Mettendo insieme alcune fonti musulmane (il celebre Rauzat Us Safa, testo persiano del 1417, il cui titolo sta per Il giardino di purezza) e apocrife (gli Actae Thomae), dettagliati resoconti di viaggiatori (ad esempio O.M. Burke, autore del testo Among the dervishes), materiale orale di interesse antropologico (cui si è particolarmente dedicato, negli anni venti del ventesimo secolo, il pittore e antropologo russo Nicholas Roerich, autore dei testi The heart of Asia e Altai-Himalaya) e altri elementi (a cominciare dalla presenza della presunta tomba di Maria in Pakistan) si potrebbe oggi corroborare l’itinerario che avrebbe seguito Gesù, sopravvissuto alla crocifissione, proposto già alla fine dell’Ottocento da Mirza Ghulam Ahmad.

Dal Rauzat Us Safa risulta un soggiorno di Gesù, della mamma e di alcuni discepoli a Nasibain (oggi Nisibis, in Turchia ma al confine con la Siria), dagli Actae Thomae nei territori dell’attuale Iskilip, nel nord dell’Anatolia, dal testo Among the dervishes risulta un loro passaggio e una lunga sosta in Afghanistan dove esisterebbe ancora la comunità dei Seguaci di Gesù. Maria non sarebbe, tuttavia, riuscita a raggiungere l’India come attesterebbe ― a circa settanta chilometri da Taxila, nell’odierno Pakistan ― il Mai Mari da Ashtan: Il luogo dell’ultimo riposo della Madre Maria, una tomba allineata con orientamento est-ovest, secondo l’uso ebraico (al pari della tomba di Yuzu Asaph, secondo molti Gesù stesso, nel piccolo mausoleo di Rozabal a Srinagar), mentre nella cultura islamica l’orientamento è nord-sud.

Gesù ― ancora nella prospettiva di Mirza Ghulam Ahmad che diversi autori avrebbero seguito ― avrebbe poi raggiunto il Kashmir per parlare alle disperse tribù di Israele, giunte in Asia centrale e in Kashmir in diverse ondate, a partire dalla diaspora assira dell’ottavo secolo a.C.

La lussureggiante regione montana recherebbe diverse testimonianze del soggiorno del profeta Yuz Asaf (che secondo i sostenitori della tesi di Mirza Ghulam Ahamd sarebbe il nome persiano di Gesù) e addirittura è possibile indicare come elemento corroborante un passaggio, in sanscrito, del Bhavishya Maha Purana (in generale i Purana sono uno dei pilastri della letteratura tradizionale hindu), la cui versione originale risale al 115 d.C.

Nel passaggio in questione si riporta un breve colloquio in terra kashmira ― avvenuto probabilmente prima del 78 d.C. ― tra il re di una popolazione conosciuta come Saka e un sant’uomo che si presenta come “Figlio di Dio nato da una vergine”.

Dalle parole del sant’uomo al re emerge un messaggio di natura monoteista ma con una netta eco pagana.
Cito:

«O re, io vengo da una terra lontanissima, dove non c’è verità e dove il male non conosce limiti.
[…]
Sono apparso come Isha Masih o Gesù Messia. Ho ricevuto la Messianicità o Cristicità.
Ho detto loro, “Eliminate tutte le impurità della mente e del corpo. Recitate la preghiera rivelata. Pregate autenticamente nel modo giusto, obbedite alla legge. Ricordate il nome del nostro Signore Dio. Meditate su colui la cui dimora è nel centro del sole”.
[…]
Ho chiesto agli esseri umani di servire il Signore. Ma ho sofferto per mano dei malvagi e dei colpevoli. In verità, o Re, tutto il potere è nel Signore, il quale è nel centro del sole. E gli elementi, e il cosmo, e il sole, e Dio sono per sempre. Perfetto, puro e in beatitudine, Dio è sempre nel mio cuore. Per questo mi è stato dato il nome di Isha Masih».

Ladakh e, nuovamente, Srinagar

 

La seconda tappa del mio viaggio di ricerca, in India, non è stata meno intensa della prima.
Ho fatto diverse tappe in Ladakh nell’agosto del 2014. Il primo posto da visitare era, ovviamente, il monastero di Hemis, dove Notovitch avrebbe trovato i celebri manoscritti. Al pari di tutti coloro che, dopo Swami Abhedananda, si sono messi sulle loro tracce, io stesso non ho avuto modo di vederli, ricevendo risposte piuttosto elusive dai monaci cui di volta in volta rivolgerò alcune domande.
Anche stando a quanto si legge su un testo che vendono in monastero, tutti sanno che Hemis è diventata internazionalmente famosa per i manoscritti della vita di Gesù in India ma nessuno ha la minima notizia aggiornata al riguardo.

Ho tuttavia sempre fatto tesoro del proverbio cinese: non lasciare che la meta diventi più importante del viaggio!

Cito da Gesù in India?

«Il Ladakh si rivela subito una dimensione arcaica, remota: si fa fatica, a volte molta fatica, a utilizzare internet, le comuni schede telefoniche indiane non sono utilizzabili in loco e nessuno sembra avere la pazienza di procurarsi schede locali.

Si incontrano molte persone interessanti, soprattutto viaggiando in corriera, viaggiatori d’altri tempi forse perché il posto e il modo di viaggiare sono, giocoforza, pre-moderni.

Si fraternizza con personaggi disparati cui si danno appuntamenti vaghi ― non potendo disporre degli attuali, efficienti, mezzi di comunicazione ― che spesso cadono nel vuoto, solo per lasciare spazio a nuovi incontri, nuove testimonianze, nuovi scambi fugaci. Il tutto in una cornice aspra e tuttavia accogliente di quasi-deserto e pietraia di alta montagna, in un contesto culturale tibetano con forte minoranza musulmana (soprattutto kashmira).

I monasteri sovrastano piccoli e dimessi villaggi, il fiume Indo e i suoi affluenti scorrono magri nei loro letti, la vegetazione chiazza sparutamente il paesaggio di altitudini irregolari e pinnacolari, vagamente lunare.

L’aria è spietatamente asciutta, l’ossigeno contingentato rende faticosi i movimenti e le frequenti salite».

Di ritorno dal Ladakh verso Varanasi ― dove vivo quando sono in India ― faccio una nuova sosta a Srinagar. Incontro nuovamente il Professor Hassnain che mi indirizza alla Mission House kashmira della Comunità Islamica Ahmadiyya. Lì vengo accolto con grande calore, alcuni membri presenti in loco si dicono entusiasti della mia ricerca e mi promettono tutto l’appoggio possible. Mi consigliano di andare un periodo a Qadian, in Punjab, la “città santa degli ahmadiyya”, per continuare le ricerche nella loro biblioteca principale.

Qadian

 

Giungerò nella città punjaba quasi tre mesi dopo il mio primo incontro con gli ahmadiyya a Srinagar.

Il soggiorno, di circa due settimane, si rivela molto intenso e formativo.

Nasim Khan, il Director of Internal Affairs della Comunità, mi accoglie con calore. Sa del mio progetto editoriale e mi dice che intende affiancarmi un ragazzo per assistenza: Zabi Ullah, ingegnere informatico. Sarà una sorta di sobrio angelo custode nel corso della mia permanenza a Qadian.
Avrò dunque modo di procedere agevolmente nella stesura del libro, creando i presupposti per continuare la ricerca a Londra e per concluderla alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

Chi volesse leggere il diario della mia bella esperienza a Qadian può trovarlo qui: http://www.viverealtrimenti.com/qadian-dicembre-2014/.

Conclusioni

 

Le conclusioni del testo scritto a seguito di una ricerca e un viaggio di grande fascino non possono che rimanere aperte. In Gesù in India? Ho cercato di dare conto della grande ricchezza di materiale documentario in merito ai cosiddetti anni indiani. Oltre ai manoscritti trovati da Notovitch non mancano, difatti, altre fonti scritte di varia provenienza (ad alcuni dei quali abbiamo già brevemente fatto cenno): gnostica, apocrifa, hindu, musulmana. Ugualmente di interesse credo sia “la ricca tradizione orale himalayana”, l’elevato numero di leggende, in circolazione in vaste aree dell’Asia, in merito al soggiorno o ai soggiorni di Gesù in India.

Le stesse tombe di Gesù Srinagar e di Maria in Pakistan possono riservare diverse sorprese a coloro che vorrebbero liquidarle come “frodi”. Soprattutto nel caso di Rozabal non mancano testi storici kashmiri che confermano il santuario contenga le spoglie del grande profeta palestinese.
Un capitolo a parte, poi, è stato dedicato, nel libro, al mistero della Sacra Sindone, all’eventualità che il lenzuolo, lungi dall’essere un falso di produzione medievale, abbia avvolto il corpo di Gesù vivo e non morto. Recentemente ho avuto modo di intervistare uno dei massimi esperti di Sindone al mondo: Bruno Barberis. Chi volesse leggere la sua intervista, la trova qui: http://www.viverealtrimenti.com/la-sindone-tra-scienza-e-fede-intervista-al-professor-bruno-barberis/

Non posso che concludere questo articolo citando le frasi conclusive del mio testo:

«Sicuramente con questo libro non possiamo ― né, peraltro, vogliamo ― mettere la parola “fine” all’appassionante ricerca volta a tentare di svelare alcuni dei tanti misteri che circondano la vita di Gesù. Misteri che possano appassionare tutti coloro che non si accontentano (forse solo per una sfortunata mancanza di fede) della versione dogmatica.

A mio parere questo libro, non potendo offrire, ovviamente, risposte definitive, può fascinosamente rappresentare un’ulteriore porta che si apre su un universo “altro” e spero possa ispirare altri a mettersi, a loro volta, sulle tracce di un Gesù quasi inedito e transculturale.
Molte sono, chiaramente, le tematiche da approfondire, dall’eventuale origine ebraica degli afghani e dei kashmiri, a quella indiana degli ebrei, dall’autenticità di molti documenti e molte vicende citati, fino alle ulteriori ricerche che si potrebbero fare sull’eventuale tomba di Gesù a Srinagar e sulla Sindone.
Non ci resta ― a noi uomini di “poca fede” e grande sete di conoscenza ― che sperare che il nostro drappello cresca e si arricchisca di altri ricercatori, che alcune accademie non manchino di coinvolgersi, a loro volta, in questa faticosa ma fascinosissima impresa.

Per concludere, paradossalmente, con uno degli slogan del maggio francese: ce n’est qu’un début!
Siamo solo agli inizi e questo testo vuole solo rappresentare, nei migliori auspici, un punto di partenza…ci sono tutti i presupposti perché il viaggio continui a essere fascinoso e non meno attraente della sua meta.

Siete tutti benvenuti a bordo; di sicuro, come è successo a me a Qadian, impareremo a vedere il mondo anche con altri occhi».

© Manuel Olivares (www.viverealtrimenti.com)

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca sufletului

 

L’immigrazione

di Antonietta Tiberia

(con l’accordo dell’autrice il testo è tratto dal libro “I RACCONTI DEL PONTE” Edizioni Progetto Cultura – ristampa 2016)

La gente dice che nel giro di pochi decenni questo paese, dove non c’è un abitante che non abbia almeno un parente emigrato in Argentina, in Belgio, in Canada, in Francia, negli Stati Uniti d’America o in Venezuela, è diventato terra di nuova immigrazione.

Vengono a cercarvi quello che a casa propria non hanno: chi il cibo, chi il lavoro, chi la libertà, tutti la speranza di una vita migliore.
Da qui un tempo partivano i ciociari da soli, con l’intenzione di tornare dopo alcuni anni a costruirsi un futuro migliore nel paese natio. E adesso ci arrivano marocchini e albanesi, che dopo qualche tempo fanno venire mogli e figli.
E vanno in giro per le campagne a vendere merci o a lavorare nei cantieri edili; imparano a fare la pizza, fanno tutti i mestieri rifiutati dai locali, perché troppo faticosi o mal retribuiti.
Vedo passare anche tante donne con facce diverse da quelle a cui sono abituato. Le sento parlare ma non le capisco. La gente dice che sono arrivate da paesi lontani, che loro non conoscono: Polonia, Ucraina, Bulgaria, Romania… Hanno trovato lavoro qui, puliscono le case, fanno le “colf”, come sento dire, o le badanti, una professione nuova di chi assiste gli anziani invalidi. Sono venute sole, lasciando che ai loro figli badino le nonne o le zie o i padri rimasti senza lavoro.
Raccontano che quando nei loro paesi c’era la dittatura lavoravano e vivevano male, perché non avevano niente; con la fine della dittatura molte persone hanno perso il lavoro e vivono peggio, perché adesso hanno la libertà e nei negozi si trova tutto, ma non hanno soldi per comprare niente. Vengono per guadagnare ciò che serve a pagare gli studi dei loro figli lontani.
I ciociari sono diffidenti, anche se di buona indole, e non accettano subito i cambiamenti. Però le nuove generazioni hanno accolto civilmente gli immigrati, hanno compagni di scuola che si chiamano Ahmed o Aiscia, che hanno imparato a parlare l’italiano e il dialetto. Se qualcuno di essi non avesse la pelle scura o un nome insolito non si distinguerebbe dai nati con le ciocie ai piedi.
Dicono che questi nuovi cittadini ciociari hanno portato le loro tradizioni, la loro musica e la loro cultura, i loro cibi e le ricette per cucinarli.
– Ma guarda tu se ’sto paese se doveva riempì di facce nere e d’occhi a mandorla – ho sentito dire da Francesco – che vengono qui a rubà il lavoro ai nipoti nostri -.
– Francè, non dì’ così – gli ribatte Pasquale – che te lo sei scordato che tuo nonno ha viaggiato per più di un mese nascosto nella stiva di un bastimento, p’andà a lavorà alla Merica? Vuol dì’ che mo’ c’impariamo a mangiare il cuscus e pure i nidi di rondine…

© Antonietta Tiberia

https://www.facebook.com/antonietta.tiberia.9

Nota di Lidia Popa

Il racconto di Antonietta Tiberia fa parte di una suite di racconti dal libro “I RACCONTI DEL PONTE” che ho letto ricco di storie e di fotografie di una vita vissuta tra alberi di ulivi e colline ciociare, che non si deve scordare ma testimoniare così come ha fatto l’autrice.

https://www.facebook.com/lidia.popa1/

© Antonietta Tiberia

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca sufletului

Festa delle streghe buone (Sânziene) in Romania-24 giugno

di Lidia Popa

I cristiani ortodossi della Romania celebrano ogni anno il 24 giugno le Sânziene. Nella Fede popolare si dice che la notte che precede il giorno delle streghe buone (sânziene) è una magia in cui tutti i miracoli sono possibili. Tutta questa notte, sia le forze del bene che quelle del male raggiungono l’apice. I cristiani in Moldova pregano questo giorno alle reliquie di San Giovanni di Suceava, sperando di scappare di problemi, sofferenze e malattie.


Il nome di “Sânziene” proviene dalla Dea Romana Santa Diana, la protettrice dei cacciatori e delle foreste. Le streghe buone sono noti anche con altri nomi: belle, fate o drăgaice (questa denominazione viene usata nel sud del paese). Il significato di questa festa è l’amore e la fertilità. Nella mitologia rumena sono noti anche altri nomi, come: elle, valvole, iezme, nagode, fate, signorine, maestre, imperatrici dell’aria e molti altri, a seconda della Regione.
Secondo le leggende, le fate sono creature molto belle che vivono nelle pianure o nei boschi. Si prendono nel cerchio e conferiscono ai fiori o alle erbe usi per aiutare la gente a migliorare o a curare tutte le malattie. Questa notte, le fate volano in aria o camminano sulla terra, cantano e condividono ricchezza alle colture e per le donne sposate, contribuiscono alla moltiplicazione di animali e pollame. E se tutto questo non è sufficiente, le sânziene difendono dalle malattie e dalla grandine.
Ci sono delle superstizioni, secondo cui le persone che non gli festeggiano in questo giorno saranno arrabbiate. Si vendicano su donne che non celebrano questa ricorrenza, biascicando la bocca. Anche gli uomini non scappano. Coloro che hanno giurato storto o hanno fatto delle brutte azioni, avranno terribili punizioni.
In alcune regioni del paese anche se mantiene la tradizione de Sânziene, quando le vergini raccolgono fiori dal campo e le intrecciano in corone con spighe di grano, e di altre sette piante diverse, ad esempio: pelino, verbena, basilico, suonagli, felce, sambuco, cicoria salice. Poi, le vergini le buttano sopra i tetti delle case le corone di fiori de sânziene. E se queste si attingono o agganciano del camino, significa che a breve arriva un matrimonio.
All’alba di 24 giugno i ragazzi se radunano in gruppi e camminano nei villaggi da lungo al lato con fiori di sânziene nei capelli. Oggi giorno si sceglie “Drăgaica”. Questa viene scelta da un gruppo di sette giovane ragazze. La scelta deve essere la più tranquilla, la più bella, ma anche la più buona anima di tutte. Dopo la giovane scelta, e addobbata con spighe di grano nel fra tempo che le altre si vestono di bianco. Poi, la processione parte per il villaggio. Agli incroci le ragazze ballano una “hora” e cantano gioiose.
In varie zone del paese, la vigilia di sânziene, si accendono nella notte dei fuochi sulle colline, e in alcuni villaggi la gente cammina con le torce accese e circonda la casa, le colture e le stalle per la salute, la prosperità e l’abbondanza. Tutta la notte prima delle feste, le ragazze andavano a mettere i fiori di sânziene, sperando che tali sarà i loro dato. Le donne sposate avevano altre preoccupazioni, loro si cingevano con la sânziene, per non avere dolore alle fatiche del campo. Sia le ragazze che le donne si mettevano nei capelli o nel seno il fiore, per attirare l’attenzione sulla loro bellezza.


Una delle innocenze più note del luogo si riferisce alla rugiada della notte di sânziene. Si pensa che abbia proprietà miracolose. In molte regioni del mondo fedeli pensano che se ti spruzzi con questa rugiada sul corpo, diventerai bello e snello. E se si lava con la rugiada sulla faccia, diventa bello e orgoglioso. Se ti avventurarsi e decidi di raccogliere quel giorno della rugiada sulle foglie di sânziene, guarisci la artrosi e il dolore alle ossa.
La balneazione con rugiada del mattino del 24 giugno è un’abitudine che richiede l’adempimento di condizioni particolari: all’alba di luoghi non calpestati, le donne raccoglievano la rugiada di sânziene in un panno bianco, di tela nuova, poi la spremevano in una nuova pentola. Tornando a casa, le vecchie signore non parlavano e soprattutto non dovevano incontrare nessuno. Se tutto questo succedeva, su chi si lava con la rugiada, si diceva che sarebbe stato sano e affettuoso durante l’anno.
Inoltre, altre ragazze bevevano pozioni nel giorno, considerato come un periodo estremamente vantaggioso, di incantesimi del cuore di uno all’altro, da cui si conclude che quasi tutto il 24 giugno era dedicato all’amore.
Alcune persone chiamano la festa di sânziene anche il silenzio muto del cuccu. Se smette di suonare prima, l’estate sarà una siccitosa. Per far sì che le persone siano sane e hanno il lavoro, si cingevano su fianchi con steli di cicoria. La notte di sânziene sorge anche il fiore bianco di felce che è considerato porta fortuna.


Per scacciare gli spiriti cattivi, la gente accende colpi con sostanze molto potenti. Si suona uno strumento chiamato “bucium” e si urla attorno al fuoco per tenere lontani gli spiriti maligni. Da spezie di frumento di fiori di sânziene e altre piante, le ragazze si facevano e giocavano a ballo. Questo ballo era un invocazione per prosperità, ma anche per la protezione della famiglia e dei orti. Nella tradizione popolare si credeva che, con drăgaice, giocasse anche il sole a mezzogiorno, quindi era più il cielo illuminato del solito.
In alcuni paesi del Sud-Ovest nella Bucovina (Moldova) si teneva il bue addobbato con i fiori. Durante la cerimonia, la maschera manzo stava morendo e rinasceva simbolico a questo inizio di tempo civile.
Tutti per sânziene erano alle fiere e mercati del bestiame. Si tratta di un’occasione ideale per incontrarsi tra i giovani per il matrimonio. Le fiere più note si avevano a Focșani, Buzău, Câmpulung Muscel, Cărbunești, Broșteni, Giurgeni.
Sotto il nome di sânziene si nascondono tre elementi strettamente legati tra loro. Il primo si riferisce alle fate, buone, estremamente buone lavoratrici nella notte tra 23 e 24 giugno. Il secondo ă rappresentato da i fiori gialli che fioriscono nella prossimità del 24 giugno, fiori avendo importanti attributi divinatori e apotropaici, questi fiori essendo sostituti vegetali delle fate con lo stesso nome. Il terzo elemento riguarda proprio la festa di 24 giugno, festa chiamata soprattutto nel sud della Romania, Drăgaica.


La notte di sânziene è magica, si aprono le porte del cielo ed il mondo sotterraneo è in contatto con il mondo terrestre. Per questo, si fanno le pratiche di commemorazione dei morti chiamati in eredita, quando si puliscono le tombe, si piantano i fiori, si accendono le candele e si va al cimitero. Per scacciare gli spiriti cattivi, le persone accendono i fuochi, si gettano sostanzi forti, poi si canta dal “bucium” e urlano intorno ai luoghi di sepoltura.
La festa di sânziene segna l’inizio dell’estate nel calendario popolare, visto tre giorni dopo il solstizio estivo, per cui indossa anche il nome del Capo estiva. È celebrato anche nel calendario cristiano ortodosso. Questa festa è del sole, dell’amore, ma anche dell’appetito. I giorni di sânziene hanno origine in un antico culto solare, ma attualmente sono associati alla celebrazione cristiana della nascita di San Giovanni Battista e di per il nuovo San Giovanni di Suceava.


In questo giorno, dal 2013, su iniziativa della comunità “La blouse roumaine”, dedicata alla promozione della camicetta rumena, si celebra la Giornata universale della camicetta rumena, segnata dalle comunità rumene di tutto il mondo. Le donne in particolare la indossano in questo giorno. Quest’anno la comunità rumena di Roma celebra la giornata in un locale di via Marino Mazzacurati 61-63 domenica 25 giugno 2017 alle 10:30.

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© Lidia Popa

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