Minuetto poems

Rido di me
di Massimo Pacetti
da Chiaro inchiostro

Seduto sul tappeto
consumato dal mio strusciare i piedi cerco fra le carte
che ho sparso sul pavimento

oggi è i l giorno dei r icordi anche i l tappeto è un r icordo
o forse i l tappeto
è i l deposito delle mie memorie dei sogni e delle aspirazioni

getto lo sguardo
in quest’ angusto spazio intimo fra gli scaffali un po’ piegati dal peso dei l ibri
e una parete appesi l ì sì
davvero i ricordi

scorro la scrittura fra le carte
ingenua creatività
di rabbia e di vissuto fra strade dove
non sono potuto passare

r imbombanti parole
che mi fanno sorridere che non r ipeterei
nemmeno in una stalla farebbero r idere
anche i l maiale che vi razzola

ma non per demenziale saggezza che non ho
per fortuna mai raggiunto

per l ‘ impossibile credenza che i l bene fosse bene

scorro le carte
“ che la pace sia con me”

e fortuna
che la fantasia non è realtà mi sembra di leggere
i l mio funerale
ma io sono proprio vivo e sorrido di me
che in quella scena “ arrivano i mostri” sono salvo
e posso scomparire
senza che nessuno mi veda

i rrimediabilmente comico sotto un impermeabile
che i l clochard
che dorme sotto casa mi ha chiesto se
glielo regalo

Ore 13 , 00 – 14 / 02 / 2014

Luna d’argento – uno schizzo
“Diable Bleu” sui capelli rossi
di Lidia Popa

Qualcuno propone le diete senza grassi.
Qualcun’altro i bignè con la crema.
Altri mi offrono un soggiorno in palestra.
Molti le meditazioni in mezzo al bosco.
Altri di leggere i loro fantastici romanzi
sulla più vecchia professione del mondo.

I viaggi oltre il Mediterraneo, in Africa
nella savana a cavalcare le zebre,
o a ammirare le Piramidi egizie.
Viaggiare in India a Taj Mahal
o sentire l’orologio sul Tamigi
e toccare il cielo sulla Tour Eiffel di Parigi.

Ma sapete come la penso?
Mi basta un quaderno e un ottimo riflesso
da scrivere ancora un accattivante verso,
per dare alla vita un percorso e un senso.
Da tutto il resto con rispetto mi congedo.

E se mi perderò mi ritroverai
perché la vita è insopportabile
per l’indefinito che nasconde.
Gli sbadigli della speranza,
le noie dell’evidente demoliscono la mente,
arrestando i battiti del cuore stremato dal mistero.

Non giudicarmi con una sentenza crudele.
Non odiarmi per quella che non sono.
Nemmeno io conosco il mio potenziale,
Me lo riscopro inventandomi ogni giorno.

Se non conosci né i miei abiti scelti,
né il pensiero creato,
e mi vedi camminare sotto la pioggia,
vaneggiare per la città
come un fuoco con i capelli tinti
del rosso della passione,
in giro per i segreti che si sono
impiccati come le perle…

e poi scappo come un relitto arrugginito
in una canzone
ai confini della luce,
dove le stelle bruciano il vecchio io,
dimentico l’essere e lo spengo
con un sogno che si nasconde
sotto una sete,
nell’abisso fantasma della seconda di notte.

Sulla scogliera dove il mio sonno
si è rotto è un molo
Dove i ricchi e i servi pesano
un etto di polveri,
per vendere la loro libertà
per un’idea dalle acque,
che elemosina un bacio
dal cancello dove giace il re nudo.

Il fischio del treno in stazione
mi dice di andare verso
un orizzonte più blu,
una terra sconosciuta,
dove il credo è forte,
non mi lascia stare zitta
e ingoiare ogni sera il boccone amaro,
la scarica siderale del lestofante mito.

Tevere
di Marta Gomes

Vedo il Tevere, ora,
il suo verdastro sporco.
I ricordi, in buon’ora
Seguono acque da cui sfuggo,

Non ho più sogno alcuno,
Nessuna sciocca speranza,
Voce mia già non parla,
Le scelte son fuori portata.

Perdute in pezzi e bolle
Di sapone, spazzettate,
Belle di sale, salato mare,
Con degli uccellini gialli
Che vanno dal volo al nuoto.

Se mi ritrovo sommersa
Nell’infinito mi perdo,
Non capisco ciò che dico
Mi si è chiuso tutto il cerchio.

Domani verrà il sole,
Asciugherà le mie ali
Allora le lacrime dolci
Saranno inutili,

Mi sveglierò senza voglie
O spegnerò la mia sete
Bevendo alla ostica fonte.
Poi volerò, senza certezze,
Incontro al niente.

Tibre
Marta Gomes

Vejo o Tibre, agora,
Seu verdinho sujo.
As lembranças vão-se embora,
Seguem águas das quais fujo.

Já não tenho nenhum sonho,
Nenhuma esperança tola,
Minha voz já não mais fala,
Já não existem escolhas.

Foram-se em restos e bolhas
De sabão, despedaçadas,
Bolhas de sal, de mar salgado,
Com passarinhos amarelos
Que passam do vôo ao nado.

Se me encontro submerso,
No infinito me perco,
Já não entendo o que digo,
Fechou-se todo o meu cerco.

Amanhã, virá o sol,
Enxugará minhas asas,
Então minhas lágrimas doces
Serão inúteis.

Acordarei sem desejos,
Ou apagarei minha sede
Bebendo em fontes difíceis.
Depois voarei, sem certezas,
Encontro a nada.

AUTUNNO
di Gianni Mazzei

Non dire che l’autunno è spoglio,
è solo essenziale
nel cadere delle foglie per proteggere la pianta
dal gelo invernale;
e sa esplodere , dietro ai rami nudi
nell’uva della vigna,
la castagne nel riccio, la zucca nell’orto
arance,mandarini, mele,pere ,melagrane sugli alberi
tartufi e funghi nei boschi ,nell’umicità della terra
in sensualità di colori, rumori, sapori
e fascino dell’essere sobrio
fedele al suo nome “augere”, aumenta e arricchisce
Non chiamatelo tramonto,
semmai savio godimento, pacata sazietà in quell’aria tersa.

https://www.facebook.com/homefit83/videos/515090652602912/?v=515090652602912

La città del nord
di Giorgio Barberi Squarotti

La luce bianca della città del Nord,
così ragionevole nella geometria
delle strade che tutte conducono alla grande
piazza aperta sul cielo troppo azzurro
da cui discese un giorno nello specchio
della neve, così limpido che
ancora vi affioravano le ombre
delle donne del tempo passato,
non del tutto cancellate dalla nuova
nevicata, venuta giù tutta la notte,
la luce quietamente candida, che dura
intatta, vuota, oltre il tempo previsto,
e non lascia ferite neppure negli angoli remoti,
non fantasmi dietro le finestre,
non orme che rimangono segnate
anche solo per un attimo nel nulla
così limpido che più non è la mente stessa
di Dio: mai in questa luce può accadere
qualcosa, mai giungere qualcuno
o aggiungersi anche soltanto una parola
alle parole qui mai pronunciate:
la luce riempie tutta questa città del cielo,
come sospesa sopra fumi e colli
e lenti fiumi grigi dove vanamente
nel ghiaccio agitano le ali i cigni prigionieri,
questa città di Dio, in cui come neve
cadono le anime sciogliendosi
sulle pietre chiare e subito non c’è
più nessuno.

Come la rugiada scivoli
di Giovanni Maffeo Poetanarratore
da Poesie sulla sabbia

Sei sui fiori del mattino
l’indescrivibile goccia che annaffia il mio amore ,
l’immagine sublime che si specchia nel mio cuore
nel tuo l’inarrestabile efebo mi divino.

Tanta è la tua bellezza ch’è io non so dar misura …
ha lampi nitidi e s’accendono nella notte offesa
dipingi luce stacciata con gli occhi tuoi ,
nei mie lasci , il bagliore dei fanali .

Come la rugiada scivoli su petali d’arcobaleno
la farfalla asseti ,vesti , di colori l’anima mia ,
scivoli sulla terra leggera è sei lacrima !
Sei il mio sei e non so darti un nome .

Sei l’esplosione ch’è s’iberna tra le mie arterie
leggera sali tra le furie del mio amore ,
come la rugiada scivoli su cuori appesi
ad un filo di telefono il ti voglio bene il mi ami.

Ti posi su pietre , al sole , su cigli e rupi
su prati irraggi i riflessi di cristalli ,
beffarda è la mia gioia non crede al paradiso ;
sul corpo tuo , s’appisola sul cuscino.

Tanto bella sei ,tu gemma di calce viva
benefica è la voce e mi arriva tempestosa,
la nota rimbombante del momento magico
l’alto elogio di un ardore sacro .

Sei fiamma che brucia senza mai scottarmi !
Usi il linguaggio delle avvezze forme ,
sottili le tue parole ove ne fai scudo …
proteggi la dignità del rosso fuoco.

Non temere lacrima di pioggia
io son paglia ,sono ombra …
sono ossigeno del nostro tempo ;
son per te , la rugiada dei folli il raggio portentoso .

Poesia
dal libro “Gesù figlio dell’uomo” di Kahlil Gibran
di Khalil Gibran

Sono molte le civette
che non sanno altri canti
oltre le proprie strida.
Li conosciamo, tu ed io,
gli impostori che rendono onore
solo a un più grande impostore,
e portano al mercato
la propria testa in un cesto
per venderla al primo che passa.
Conosciamo il pigmeo
che insulta l’uomo del cielo.
E sappiamo
cosa dice la mala erba
della quercia e del cedro.
So dello spaventapasseri:
le sue sporche e lacere vesti
si agitano sul grano
e al vento sonoro.
So del ragno senz’ali:
è per gli esseri alati
che intreccia la rete.
Conosco gli abili suonatori
di corno e di tamburo,
che nel loro frastuono
non sentono l’allodola
né il vento di Levante nella foresta.
Conosco quelli che remano
contro ogni corrente
senza trovare mai la sorgente,
e percorrono tutti i fiumi
senza osare mai avventurarsi nel mare.
(venerdì 20 aprile 2012)

Viviamo dei sogni
di Lăcrămioara Maricica Niță

Ho imparato…
non esistono i sogni troppo grandi
i sogni non si tengono nel cassetto
I sogni impolverati non prendono ali
I sogni sono i desideri …desideri cantati .
Vorrei scrivere una città …
vorrei essere un poeta a piede libero,
passeggiare per le strade dell’alfabeto
rompendo qua e là qualche lettera
o magari un bel mazzo di lettere per comporre
il poema d’amore per i senzacuore!
Chissà sé poi fioriranno tra le sterpaglie le più belle canzoni?
Sentiremo l’eco delle seranate,
bisbiglio d’inamorati sotto le coperte della notte.
Viviamo dei sogni,
La speranza ci nutre!

Il poeta
di Valentino Zeichen
da Le poesie più belle

Presumibilmente,
sembro un poeta di elevata rappresentanza
sebbene la mia insufficienza cardiaca
ha per virtù medica il libro «cuore».
Abito appena sopra il livello del mare
mentre la salute, la purezza, la ricchezza
e gli sport invernali
stazionano oltre i mille metri.
Perciò mi ossigeno respirando l’aria
dei paradisi alpini
così arditamente fotografati
dagli scalatori sociali
nonostante la pericolosità dei dislivelli.

Centocelle
di Fernando Della Posta

Nuova periferia non nasce un poeta
che ti canti, né un pubblico disposto
ad ascoltarti. Se prima una ferita
ti slegava dagli stemmi, oggi una frattura
ti separa dai quartieri identitari.
Penisola che un fragile istmo attacca
a un cuore morto, nel tedio domenicale
il silenzio, un vuoto senza nome avvolgono
i tuoi stradoni solitari. Nell’osteria turca
ben quattro dico quattro signore slave
onorano un pranzo festivo; due ragazzini
guance nodose, tessuti scolpiti nel teak
bevono un espresso nazional-popolare;
la stessa magrezza di mio nonno giovanotto
appare nel levantino che esce dal locale.
Una bambina indù si rassicura sul mio resto,
mi propone stuzzicadenti cinesi. Esco contando
le persone su sei dita. Sui Gerani sta piovendo sole.

UNA LETTERA
di Amrita Pitam

Io – Un libro in soffitta.
Forse una convenzione o un innario.
O un capitolo del Kama Sutra,
o un incantesimo per intime afflizioni.
Ma pare che non sia nessuno di questi.
(Se lo fossi, qualcuno mi avrebbe letto).

Parrebbe che a un’assemblea di rivoluzionari
abbiano ottenuto una risoluzione,
e io ne sono una copia a lungo termine.
Ha stampigliato il timbro della polizia
e non è mai stata aperta in seguito.
È conservata solo a scopo procedurale.

E ora sono venuti alcuni passeri,
con la paglia nei becchi,
e si sono posati sul mio corpo
e si occupano della prossima generazione.
(Che meraviglia occuparsi della prossima generazione!)
I passeri le coprono con le loro ali,
ma le risoluzioni non hanno ali
(o le risoluzioni non hanno seconde generazioni).

Talvolta penso di sentirne l’odore –
cosa c’è nel mio futuro?
La preoccupazione mi fa uscire la rilegatura.
Quando provo ad annusare,
sento solo esalazioni di guano.
O mia terra, il tuo futuro!
Io – il tuo stato attuale.

Versi

di Paolo Vigo

Malvagio è colui che si cela dietro un sorriso,
chi parla d’amicizia e t’accoltella, infimo e cattivo infinito.
Malvagio è colui che s’accosta,
e sotto il tuo sguardo,striscia.
Malvagità celate, di amicizie strane,
di amore mascherato.
Ingenuo colui che crede
a chi si insinua,
a chi ti trasporta d’animo e in corpo porta il verme,
verme pericoloso,
velenoso,verme che ti mangia piano
e ti consuma,
e ti tiene in mano.
Malvagio è colui che si cela dietro la parola amico,
o ancor peggio chi ti chiama amore,
che ti guarda da sotto è muto è,
è il tuo assassino.
Assassino della gioia e del sorriso,
dell’amicizia e dell’amore altrui.
Malvagità celate, di amicizie strane,
insignificanti gesti.

Attimo d’amore
di Maria Alberti

Frena
il tuo sguardo in questo attimo
nei miei occhi, come fosse l’ultimo
pensiero raccolto nella sera
prima che la notte sia più nera.

Trema
la mia voce e vola oltre l’azzurro
della tenda, come un lieve sussurro
dalle labbra al tuo sorriso
nel silenzio d’un “credo” condiviso.

Frena
la tua mano che timida avanza
fra le mie dita, come antica danza
sulle note della malinconia
di un’ora che vediamo volar via.

Trema
il mio pensiero nell’infinito scorrere
del tempo, in questo continuo correre
e poi attendere della vita
mirando al volo d’una stella colpita.

Frena
il desiderio che dal pensiero scende
al cuore, pulsare del sangue che pretende
un immediato gesto d’amore:
sento forte il battito del tuo cuore.

Freno
il desiderio che dal cuore risale
al pensiero, mi perdo in questo nostro mare
e non chiedermi più d’aspettarti:
“Dio, che puttana voglia d’abbracciarti!”

Distacco
di Corrado Calabrò
da Quinta dimensione

Conca incolore placcata di cirri
che si distinguono appena lassù !
A veleggiare la fuggente estate
sopra il silenzio di zinco dei monti
scorrono a soffi lunghi e ripetuti
le ombre e i vapori portati dal vento,
perdutamente spinti e poi lasciati
per approdare distanziati a oriente.
Rallentata mi penetra nel petto
nella bocca e negli occhi, sostenendo
e sorpassando il suo precorrimento,
a tratti l’aria che infine si tende
stringendo gli occhi in una pena lenta,
che pure cede e come inutilmente
si svia e s’affloscia, attratta in un distacco
che aumenta al brusco cadere del vento.
Solo ora sento che mio padre è morto!
Prima dell’alba, per andare a caccia,
con lui salivo su per le colline,
tanti tanti anni addietro, incontro al vento.
Andavo, armato della sua fiducia,
e lui seguiva col passo un pò stanco
la spalla noncurante e l’occhio altero.
Immoto, è trasalito l’orizzonte
sbloccando nella volta ingigantita
spazi latenti dietro la calotta
che arretrano in fondali opalescenti.
….Fondo di raso spianato in segreto
dalla carezza timida dell’alba
e in un immenso afflusso ora colmato
d’una colata liquida di vetro
che appena si distende non si fissa
ma impallidisce rivelando il vuoto!
Frange il vento la siepe di noccioli,
scorre un brivido argenteo nella chioma
degli ulivi giù giù per la collina.
Chiudo gli occhi: il tuo volto è un pò smarrito
ma il tuo cuore va al trotto sul sentiero
della mia giovinezza e la precorre
coi passi svelti di quand’ero piccolo.
Inalterato ritraspare il cielo
di sotto alla pellicola di luce,
impedita e adesiva nel suo gelo
ma che, insinuata nel suo stesso incaglio,
avanza a stento in lento disinganno,
come un chiarore crescente di luna….
quasi il tocco furtivo d’una mano
attesa tanto…. e poi non trattenuta
che un solo istante e come inutilmente.
…. E tutto il cielo sento allontanato,
per la sua sola altezza avido e intento.
Non è avanzato tuttavia il sole….
non è caduto tuttavia il vento….

L’UCCELLO NERO
(L’ultimo poema romantico)

di Daniel Corbu

da La lezione d’abisso

Nel cuor della notte quando stavo stendere le ultime
righe del „Trattato sulla viltà del mondo dalle origini
fino ai nostri giorni” e leggevo su Internet
notizie della più nera cronaca, quando ero già al corrente
che in Costa Rica
la criminalità nelle fila degli elefanti bianchi ha raggiunto
quote preoccupanti
che un serial stupratore ha violentato addirittura nove
donne in qualche luogo delle Canarie
e i mafiosi hanno rapito nuovamente il bambino
del miliardario Hababis, che le cose della principessa Diana
sono in vendita in vari ombrosi mercati di roba vecchia,
che a Holywood mettono sulla testa di Shakespeare
una cenere postmodernista asfissiante
acre e pesante come un treno gremito di
soldati, che certi ometti verdi e amici dell’uomo
fautori di un Ponte di fiori intergalattico
hanno occupato altre tre isole del Pacifico,
ho sentito un rumore dalla finestra aperta
un rumore prolungato e macabro tipo UFO nevrotici

gli occhi staccati dal multicolore schermo del computer
ho visto l’abbagliante luce entrare burrascosa nella mia stanza
dopodiché una raffica d’ali agghiacciò la stanza
facendomi irrigidire sulla mia barocca sedia felpata e
sopra il camino un corvo principesco si accovacciò
guardandomi negli occhi.

Come in una sequenza cinematografica quasi attraversavo
corridoi di spavento
scorticavo attimi mancati in un labirinto abbandonato
tuttavia fermo sulla mia sedia guardavo verso
il camino inglese dove si era accoccolato lo strano
imperiale ucello nero.
L’anima: un pò di scoria e basta, scodinzolando
ai miei piedi.
„Sei il Corvo di Poe – ho osato di mormorare
– insomma le tue ali sono un presagio della fine
dimmi, perché sei venuto corvo apocalittico,
misterioso Corvo ?”

Ma lui se ne stava immobile guardandomi fisso.

„So che adesso dirai Nevermore – ho scandito ‐
è tutto ciò che puoi, dire, Corvo incolto iettatura viandante,

me l’ha detto Poe. Ma perché hai scelto
proprio me spaccando un secolo con la tua nera ala?
Orsù dimmi corvo allegorico iettatura dei secoli
imbrogliati nei sogni sei la Vita ovvero la Morte
cospetto della Rovina che sei ?”

“THAKATIMUNU SIPEDI”
mandò fuori dal suo reale becco il nero uccello
“THAKATIMUNU SIPEDI” si è diffuso dappertutto nella
stanza triste come il brivido della morte.
“Dimmi uccello occulto chiunque tu sia
questa strana parola cosa significa?

Ma il Corvo proferì trionfante:
THAKATIMUNU SIPEDI

„Ancora una volta ti chiedo maestoso Corvo Thakatimunu
Sipedi che cosa significa e perché cambiasti insieme al secolo

quel misterioso „Nevermore”. E perché hai
scelto proprio me
fra i tanti lasciandomi vuoto come dopo
sterminatrici
sbornie? Ma il Corvo rispose fissandomi con il
suo vitreo sguado:
“THAKATIMUNU SIPEDI”

„E dove intendi andare enigmatico Corvo
adesso che mi hai versato nell’anima il tetro umore
dell’arcano quale maledetto assenzio? Hai delle notizie su
Poe
che morì in un fosso non molto dopo avergli ispirato
la strana parola „Nevermore”?
E adesso dove? Verso Dove? Verso Quando?
Il Corvo ribatté guardandomi fisso “THAKATIMUNU SIPEDI”

Ho aperto il gran Dizionario a T e a S a P e
all’ancestrale discutibile Z degli antichi re
per non sbagliare il senso come Poe nel
passato prima che lo strano apocalittico uccello
nero scompaia:
“Zopedi” = la fossa del tempo, “To axion esti”, “Gnothi
Seauton”,
“Katimoris” = il fiore suicida, “Katimos” = duna di
variopinto crepuscolo ( Forse che là dovrei seppellire
tutte le idee sulle cose).
In fretta ho sfogliato i libri massonici La Geenna, Paideuma,
Il Golem, La Cabala mentre mille algide bestioline
scivolavano sulla mia schiena
dimenticandomi dell’uccello parlante finché
ho sentito uno svolazzare d’ali e il magico Corvo
accovacciato sul telaio della finestra proferì per l’ultima volta
THAKATIMUNU SIPEDI
attraverso il giardino dei ciliegi allontanandosi
tra i dadi e i contenitori rifiuti della notte allontanandosi

mentre stavo ripetendo stordito
“Gnothi Seauton” “Zopedi” ”Imunu” “Katimos” Verso
Dove?”
“Sei la Vita ovvero la Morte? Il cospetto della Rovina”
THAKATIMUNU SIPEDI
THAKATIMUNU SIPEDI
Di là dal bene e dal male in attesa dell’alba.

=IwAR33NGXH6cc1aAUv4h2Yvwww.youtube.com/watch?reload=9&v=sr6ZT9wavac&feature=youtu.be&fbclidhr5HcQ1VpsyxNoWrgbyxvkL8nWjWFNeu7lGO-Q

Rivista letteraria Lido dell'anima 2017 -2018

RIVISTA LETTERARIA  LIDO DELL’ANIMA di Lidia Popa

©

per info email: periodicoonline.lidodellanima@gmail.com

Rivista letteraria Lido dell'anima 2017 -2018

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© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Numero 9

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 giugno 2019

Minuetto poems

L’ ∞
(rivisitazione matematica di “L’Infinito” di Leopardi)
di Roberto Maggiani

Sempre cara mi fu questa spoglia gaussiana –
e questa delta di Dirac ammortizzata
o una qualunque risonanza della funzione
e ogni discontinuità
che da tanta parte dell’ultima infinità
mi esclude la comprensione.
Ma calcolando interminati
integrali sulle code gaussiane
fino al limite – al di là di ogni interruzione –
io nel pensiero simulo ogni soluzione –
e temo la non linearità del problema.
E come un’idea avverto
muoversi tra i neuroni –
più comprensibile e semplice di quella
articolata e astratta –
questa la comparo a quella e mi sovviene
l’intuizione dell’assurdo
e la logica leggera e semplice del finito
intorno al massimo della funzione
privo di complessità.
Così in questa matematica
s’annega il mio pensiero
e il naufragare tra i numeri –
tutto sommato – mi rende sereno.

A TREDICI ANNI
di Maurizio Soldini

il jeans arrivò come il tornaconto del tempo
a coprire il passaggio dagli anni più verdi
con le ginocchia nude e dure al vento

accantonate figurine e biglie di vetro nel cassetto
ci fu l’entrata nel mondo di eroi e di dei
e libri e quaderni e traduzioni da lingue morte

e la sorte del canto stava accanto a una chitarra
coi primi versi e con le storie da ridirsi di notte
appesi a occhiaie della crescita insonni di musica

a consumare i muretti e a leccarsi i baffi amici
della spensierata gaia lezione dei giorni fiume
quando effimeri e in piena esondavano gli ormoni

IL CAPPELLAIO MATTO
di Sandro Spallino

Ho una Chiave
Arrugginita,
ma non pensate che sia inutile
e vecchia, io voi sapete che stò
sempre con gli altri e facendo
tante cose s’impara anche ad amare,
ma quando la gentilezza mi spinge
a salutarvi ancora un giorno, io apro
una porta, un corridoio basso verso
i sentieri di nessuno, là … una panchina
su cui mi sdraio giusto in fondo
alla via Lattea in mezzo a migliaia
di stelle che tocco con mano
nella notte eterna, in compagnia
del mio passero ammazzato anni fà
ripetendo all’infinito i medesimi gesti
e leggendo un unico libro, Magia.
Il povero Diogene Laerzio
con il suo lume passa e rischiara
il lembo sdrucito della mia giacca,
non si è mai accorto di
me che pur potendo esplorare il verde
limpido delle acque non mi
sono mai mosso da qui.
Qui è il non tempo per tutti, e anche
gli anelli di fumo hanno idee e narrazioni.
Il maestro Artaud è intendo
a saltare un fosso che non c’è
e ti fa l’inchino come fossi un cesare,
poi ritorna al suo amore
disperato di sempre.
Tarocchi e profumi di timo.
Qualcuno mi chiama,
mi pare quella buona madre di sempre,
e meglio che io scenda prima che
mi veda qui attempato
col gatto intendo a parlottare come un rè,
e a leggere sopraffino il giornale.
Ho il cuore innamorato,
su una bilancia pesa un grammo in più
e io che pensavo fossi di ferro traditore,
ma tanto che ve lo dico a fare!!

istruzioni per l’uso
di Alfredo Bruni

butta via la penna
prendi in mano il cuore
o un suo parente stretto
scrivi qualche segno nero
sul foglio di cartone
e dagli la tua anima
se vedi la polvere
trasformarsi in mosche
o in angeli che danzano
sul confine dell’Inferno
hai scritto la tua ultima poesia
agita bene i colori e i pensieri
e ripeti ogni giorno
l’operazione –
oltre il muro
lascia la noia
insipida incolore
e ripeti
ripeti
fino a morire

Sibari 21 giugno 2019

Se devo vivere
di Roberto Juarroz

Se devo vivere senza di te, che sia duro e cruento,
la minestra fredda, le scarpe rotte, o che a metà dell’opulenza
si alzi il secco ramo della tosse, che latra
il tuo nome deformato, le vocali di spuma, e nelle dita
mi si incollino le lenzuola, e niente mi dia pace.
Non imparerò per questo a meglio amarti,
però sloggiato dalla felicità
saprò quanta me ne davi a volte soltanto standomi vicina.
Questo voglio capirlo, ma mi inganno:
sarà necessaria la brina dell’architrave
perché colui che si ripari sotto il portale comprenda
la luce della sala da pranzo, le tovaglie di latte, e l’aroma
del pane che passa la sua mano bruna per la fessura.
Tanto lontano ormai da te
come un occhio dall’altro,
da questa avversità che assumo nascerà adesso
lo sguardo che alla fine ti meriti.

L’ULTIMO FRAMMENTO …

di Sergio Carlacchiani

da Scritti InVersi

… in questo girotondo di fantocci nel vento

sbriciolati via via per comperarci la povertà

si muore per vanità spalancati allo spavento

in attesa con la colpa di non averla compresa

dannazione delle parole che si ripetono sole

per difetto d’immaginazione d’orgoglio umano

che fanno il gioco dell’ assurdo e lo vivono vero

come se fosse possibile segno dell’invisibile

una recita da paura l’ultima atterrita che stana

il frastuono con l’anima sospesa che s’allontana…

Ma più che mai…
di Corrado Calabrò

Dall’inizio mi manchi,
come l’acqua alla sete del deserto.

Mi manchi quando ti cammino a fianco:
non vanno nella stessa direzione,
se non per breve tratto,
due treni su binari paralleli.

Mi manchi quando sono con un’altra,
come manca la freccia alla ferita
che per la sua estrazione si dissangua.

Ogni giorno mi manchi; e in ogni dove
perché all’assenza di te
non c’è un altrove.

Liti di brezze…
di Marina Pizzi

Liti di brezze sconfinano il giardino,
La lettera d’amore sta sotto la panchina
Dove nel freddo si dorme anima opaca.
Ventura giovanile quando c’eri
Con me la cintura di bellezza
La gonna corta per gambe museali.
Parrà amore ancora sopravvivere
Alla tua morte ripida e silente
Tra le rocce della Sardegna inimicali.
Il fumo che ti uccise non ebbe rotta
Né calendario il tempo di sopire
Alla leggendaria estasi del fato.
Fu perfido l’enigma di andarsene
Servili al veleno, veleno senza antidoto.

Volevo te e Firenze
di Daniela Fabrizi

Ed io volevo amare in Arno,
seppellirmi sotto Ponte Vecchio.
Ed io volevo te e Firenze…
te con la bici in braccio
e la tua testa in spalla.
E il treno che mi ha rubato e sbatte
contro la panchina dell’illusione…
tace.
E tutti quei soldati
che ti stanno intorno…
Nina, non posso scendere,
e tu non puoi salire…
Ti grido una canzone
così rimarrà appesa alla stazione
e tu saprai che da qui
non me ne andrò mai.
Tu non salire, Nina,
ricordami così,
coi capelli al prato alle Cascine.
…ti canto una canzone…
“Firenze, stanotte sei bella
sotto un manto di stelle…”
Sogna, Nina, sogna,
nei sogni non c’è dolore
e poi nessuno muore…
Si torna in Arno
a passeggiare lungo il fiume.

POESIA SEI TU
di Leopoldo Lenza

Poesia sei tu,
poesia del bianco
del tuo seno in rigoglio
ecco sei tu,
o donna dei miracoli
tu che restituisci l’amore
e il nostro quadro
presto si compone
e prende vita nelle
nostre assetate menti.
L’immagine è ancora sfocata
ma il cuore ha visto bene
e le parole non rendono
il tuo acerbo splendore perché
poesia sei tu,
armonia di donna
comparsa in scena forse
una sera di primavera
in mezzo ad attori brillanti
o nel chiostro di una chiesa
benedetta.
Poesia sei tu
che ad ogni passo
ricami bellezza
e dispensi il nettare della
verità e dell’umiltà.
La vita è un fermento
di calma e pazzia dici
ma poesia sei tu
e l’amore che fai
immaginare
la bocca che vorremmo
baciare
il mondo che vorremmo
abbracciare
le vesti che vorremmo
indossare
per essere degni di te
ninfa o ancella che tu sia
che nel tuo bianco candore
sei promessa pura
di beatitudine in terra.
Poesia sei tu
o donna che questo miracolo
hai con me compiuto,
tu che porgendomi
la mano virtuale
hai violato
così dolcemente
la mia solitudine.
Poesia sei tu
e un sogno
appena accarezzato
che aspetta solo le
tue due parole:
TI AMO
Sarà l’incipit
del nostro, dell’unico
dell’irripetibile romanzo
della nostra vita.

16 agosto 2014

CONCHIGLIA DI RINASCITA
di Iole Chessa Olivares
dedicata a FIRENZE

In crescente splendore
avvolge cuore e mente
aggiunge ” un più di gloria “
all’umano respiro
tutto trasfigura
con luminose sorprese.
Si sà per la bellezza
non c’è addio o confine
nell’alchimia del suo abbraccio
qui
vibrando con tutti i sensi
lungo una luce suprema
finiamo per riconoscerci.

In un tremore di labbra
l’intimo segreto delle origini
il fuoco dell’unità
risorgono
spigoli vivi punte impervie dell’io
scompaiono in piena deriva.

FIRENZE è CONCHIGLIA DI RINASCITA.

Soavemente
accende il sangue
libera un ” NOI ” purificante
misterioso nel durare un attimo
eppure non finire.

Che si dica a tutti il lancio delle pietre
di Rita Pacilio

alla fontana con la febbre addosso
mentre le volpi salteranno al buio

si sappia il pensiero costante di quest’ora
pomeridiana, la tristezza del ragazzo bruno,
cosa ha detto il cielo in cima al monte.

Lui sopporterà il torace bucato e poi
impagliato sotto i lividi trasparenti
innominati, lontani dai gesti saggi

in quella chiarità che strepita sconosciuta
tra oriente e occidente assai distante
cercando il varco tra la ghisa della padella
e il perdono.

Dal Limite del vero
di François Nédel Atèrre
La Vita Felice Ed. 2019

*
È sopra il muro il memento, per poca
cosa che sia, del giardino di casa:
un pezzo di mosaico. Gli anni buoni,
imparalo, hanno i loro riti. Vanno
per strade torte, nell’acqua dei rivi
schiumosa, per le crepe dei mattoni.
Te li ritrovi coi vestiti nuovi
lungo le scale, a volte sulla porta
socchiusa. Fingono di non vederti.

**
Le foglie, i vuoti d’aria. La caduta
è solo un graffio dell’ombra. Si disfa
in pochi giri – il viale è corto – quello
che resta della stagione. Si tiene
il mento basso, la parola chiusa
nel petto: il tuo restare è qualche sguardo.
Tempo che si trattiene o che è già andato
in altro tempo, il tuo fianco, il respiro
e a terra il tuo dolore, che conosco.

Chiaro inchiostro
di Massimo Pacetti

All’ombra il calice
non lo berrò

rompi il bicchiere
in frantumi

è la tua celebrità
che vuoi celebrare
non la mia che ti avvelena

è straziante il lamento
rapido e fulminante
che accoglie un’intelligente
latitante finzione

diritti simulati
di un’esclusiva vanagloria
è un legame ritagliato
da parole ritrovate

non possiedono serenità
allucinazioni mentali
contrastano fantasmi interiori
nella memoria dolente

è tutto infinitamente caduco
e la conoscenza non è amore
in quell’inestricabile cammino
senza slancio che procede a fatica

sottomettere
dominare le passioni

mentre si incendia l’immaginazione
anche solo pochi segni
di chiaro inchiostro
realizzano la conoscenza

ma non è tutto amore
e nemmeno gloria è solo un geometrico
selvaggio insieme
di paure e segreti
sepolte in un antropologico rifiuto
di pulsioni ancestrali

21 /0 1/20 14

da “L’ospite indocile”
di Lucianna Argentino
(Passigli, 2012)

Sembrava facile pensare che potesse essere tutto lì.
C’era il sole, il vociare del vento, c’era l’infanzia con le altalene
a filare il tempo, c’erano i prati, gli alberi, il loro verde
materiale e mutevole e c’era un poco d’ombra
per non socchiudere troppo gli occhi.

Sembrava facile, sì, pensare che potesse essere tutto
in quella luce a strati, nel desinare chiaro della rondine,
nel lavorio della formica, nella liturgia della morte,
nella sua sonora pietra. Felice di nulla edificare.

TERRA DI DIO, TERRA DI DISPERAZIONE
di Giuseppe Tacconelli

Partiti verso le tenebre.
Coartati alla diaspora,
intrisi d’angoscia.
Con le tasche rigonfie di povertà
o dei ruggiti di letali ordigni.
Grida di dolore strozzate in gola,
scagliate per anni come secoli.
Uomini lapidati da pensieri di morte,
lungo un’incolore esistenza.
Mani giunte alzate al cielo
implorando risposte dalle stelle.
Oltre gli astri verso il proprio Dio,
affinché riesca a scuotere l’inesorabile,
con possente spallata obliqua.
Instillando acqua tra piagate labbra.
Le ali vennero tranciate di netto
ai soggiogati da mercenarie divinità.
La caduta fu rovinosa
cedendo ad irresistibile peso.
Strappando ciò che rimarginava.
Il silenzio dilagò attorno.
Spalla a spalla con i fratelli
con i quali intonare preghiera sommessa,
nella marcia a capo chino.
Svegliarsi ogni giorno e sognare
una nuova terra fertile d’amore,
dove chiamar le stelle con voce universale.
Invocando ardentemente il Dio dei popoli.
La luna li guarderebbe con occhi invidiosi,
correre ridendo
inseguiti dalle nuvole.
Sempre più veloci,
fendendo vento e stormi di uccelli,
in armonia con il disegno celeste.

I tuoi nuovi colori
di Tiziana Marini

Rispetto il tuo nuovo tempo, la stanchezza
che ti veste
le foglie cresciute sui capelli nella tua dimensione
aerea, svettante

rispetto i tuoi nuovi colori mentre il tempo
ti doma e la pazienza
bianca, pura, ti persuade ad aspettare.
(hai detto, convinto ‘’Aspetto’’).

Ti ho visto cosi’ seduto, rimpicciolirti
nella lentezza del tramonto
e mi hai inondato di lontananza.

Penso che qualcosa di eterno si compia
ad ogni tuo gesto
la fiducia di un seme spaccato sul germoglio
come un taglio nel cielo.

Haiku estivi
di Lidia Popa

Voltano faccia
i girasoli fieri
sOle’n ecliSse
*
Canto di fate
sospesi neLl’aria
fioCchi di nEve
*
Petali giaLli
Volano le farfaLle
soFfio nel veNto
*
Su funivia
sopra silvestri pini
guardo la città
*
Cuculo canta
nel mughetto di pini
fresca resina
*
Carmen di Bizet
nella selva di pini
fischia Lorely

Ogni variazione vale
de Luciana Raggi

Ogni variazione vale
inclusa questa
di questa scarna parola
da assaporare.

Ogni variazione vale
inclusa questa inaspettata
dal sapore imperfetto

Un bicchiere più vuoto
una ruga più profonda
una stella più lontana.

Ogni variazione vale
inclusa questa dell’ultima ora
trasformazione minima

arrivata improvvisa
con la spinta della gravità
il colore del destino.

POESIE NUOVE
di Fabia Baldi

Mi sveglierà il tuo desiderio
sotto l’occhio impudico della luna.

Planiamo
come sfiniti alianti
sulla grande terrazza

***
Se la tua voce è un’illusione
a tragettare l’amarezza del presente
oltre il groviglio di rovi,
a indovinare l’ala bianca di libertà
oltre le nuvole,
a disegnare l’arcobaleno
su questo cielo di ardesia

***
Dirò che mi basta.

Ma non chiedermi
se domani
sarò ancora vela
al refolo tiepido
della tua carezza

Musa
di Daniela Atzeni

Quando il sole piange, tutto scorre..
Se le nuvole in cielo, ti abbracciassero figlio mio,
tu, non ostentare.
Se le sole preghiere che odo, son fatte di felci, non esser triste.
Se l’immensità in cielo è fatta di note, fammi accarezzare
la codina di una Semiminima e, posarmi
sul Pentagramma.
Di te, fino a te Amore mio,
Musa.

Frammento (LI)
di Alessandra Pennetta

LI
Sciolgo definitivamente le mie dita/
dalle tue./
E’ laccio impossibile/
da stringere./
Mi domandi quand’è che ci allentammo./
Fu quando tu mi desti filo da torcere.

XII – L’INFINITO
di Giacomo Leopardi

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

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© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Numero 8

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

26 marzo 2019

Minuetto poems

Faccia a faccia
di Nina Cassian

Aspettavo questo istante, faccia a faccia,
un viaggio verso una meta che ci separa;
faccia a faccia, con sembianze di violenta reciprocità,
le mani consumate dal sangue che non osano baciarsi,
gli abiti che non ardiscono tendere al rosso,
le bocche aggirate dalla parola
che porta giorno e sera sulle cose.
Eccoci dunque, faccia a faccia, allontanarci
con tutta l’incomprensione di cui siamo capaci,
in un’avversione per la specie tale che
quando il treno ci getta l’uno nelle braccia dell’altro
ci si rivela la morte,
come forse capitò ai mammut
nel fare il balzo nell’era successiva.

Il sapore dei glicini
di Anna Manna

Ti ricordi il sapore dei glicini
che ci penetrava
la pelle
e le narici infiammate
dalla primavera che avanzava?

Ne sentivamo il nettare fin dentro l’anima
che s’assopiva lieve
a quella tentazione spavalda
l’ultima
prima di diventare consapevoli

In bilico
tra l’inganno e la verità
il sapore scendeva nella gola
promettendo delizie
e intanto il fiore velenoso
ci annebbiava la vista

Era l’amore primo
la prima volta l’inganno

Se mi capiterà di passare ancora
in quel giardino
proverò a strappare i lunghi fluenti capelli
del glicine innamorato
a primavera
ma chissà
se sarò capace ancora di mangiarli!

Inganni e lusinghe
per entrambi
pendevano lungo siepi e balconcini
infiorati
dai glicini viola-ti
dai nostri
giovanissimi
stupidi cuori infranti

Il mio maestro è il vento
di Gianni Mazzei

Il mio maestro è il vento,
non quando è rinfrescante nelle giornate torride di luglio,
è tale se mi colpisce furioso negli stinchi
impazzito di tempesta gridando in lungo e in largo
che vuole uno sfracello,
e anche la più robusta quercia è tenera canna spazzata via
senza nemmeno il musicale lamento di quest’ultima.
Solo uragano è il mio maestro,
non un harem di parola per diminuirne la potenza
e il terrore delle prede, compreso il sole che ha in sé
altre tempeste che lo piegano dentro con vigore
mordendolo nella luce che si tramuta in spessa ombra
che copre l’universo tra miliardi di anni forse
ma qualche volta anche subito se avviene che io
in questa morta quiete perda il senno e la ricerca per cui
sono follemente nato
con ritmo solenne di terremoto.

Mi pronunci come la primavera
di Val Răzeşu
Traduzione/ Traducere în italiană Lidia Popa

Senza di te non sono io, la mattina non mi conosce
nello straniero colpevole che sta al di là del cancello
sulle ali di allodola, albe che non sono successe
finché non sei entrata nel mio destino, l’alba lo scrive.

Attraverso la città assonnato, in eco di passi leggeri
sull’ombra invisibile che non sa mai
che indossi il cielo sotto le ascelle, grida il giorno iniziato,
dalla bocca baciata, la Canzone, per uccidermi

Nel mio essere profondo, inondato di silenzio
mi hai lasciato il blu tutto, per dipingerti sul cielo
in un giorno di resurrezione, dalla croce scesa,
sii il fiore di aprile dell’angelo che ti chiede.

Mi pronunci come a primavera, dagli inverni scorsi
richiamo della gioia del ragazzo che ero
attraverso le nevi perse del sogno per sempre
dove il Pupazzo di Neve non pensava che ti avrei avuto.

Continuo ho girato sulla terra, aspettando che tu venga,
Babilonia mi ha sussurrato che ti ha rubato il Nilo
musa tra le poesie ma, a quanto pare, sei scappata
il bambino non ti ha più trovato, ad essere Cleopatra.

Solo la Sfinge guardando su come la ferita si infittisce
del sogno che avrei dovuto trovare verso di te
il Mediterraneo ho attraversato verso di te, mia cara
Ma alzato nella cattedrale senza costruire Anna.

Ma il mio destino ti ha nascosto, l’Europa mi ha mentito
che la sposa ti tiene, e che ci siamo messi a scommettere con lei
che tu non sei ancora venuta, che Parigi sta delirando
non può avere fiore, il continente rinsecchito.

Mi ha chiamato sull’Atlantico, una strana ansia,
tu eri un nuovo mondo – e scappavo da quella con i difetti
ma non ti ho mai scoperto, ragazza, vagando per le due Americhe,
Solo una lacrima di nostalgia sulla guancia dei Caraibi.

… E poi, tornando a casa, ho sognato una vita intera
che ero arrivato troppo tardi al tuo mondo, tu, tardi
eppure eri la mia sposa in non scritte poesie
cosa sognavano nel Libro della Vita scriverti del nostro matrimonio.

E come Dio è buono, come le persone non possono essere,
dopo l’inverno infinito che mi ha colpito nei capelli
ha iniziato a fiorire, sorpresa di innamorata
la più grande verità che possa guardare.

Mi ha donato te, un Miracolo, quando era per sempre tacere
Mi ha colpito la mancanza fino alla solitudine
privo di vita facendomi, alla primavera hai tirato la serranda
per inondarmi con tutti i fiori di lilla.

Oggi, inutile sto a guardare gli inverni che sono venuti
per chiedermi lo stesso per cosa sono scappato
all’eternità ti ho resa grande, sotto l’increspatura delle stelle
il cielo tutto ha ancora baciato il lilla in fiore.

Non potevamo mancare
di Donatella Costantina Giancaspero

Non potevamo mancare
all’appuntamento con il tramonto,
in questo giardino severo
di alberi soli,
tesi, come accuse al cielo.

Non potevamo non esserci
dopo molti giri a vuoto,
fuggendo i veleni, le trappole urbane,
tentando una falla, il filo sfilato,
nella trama del tempo, che ci contiene.

È un sollievo questa tregua di terra e rami
e l’ora che chiude il giorno.
Lento il respiro, se è per cedere
anche l’ultimo chiaro, a ovest,

e la sera ci salva.

Nel giorno degli innamorati
di Lidia Popa

Zampetterò come un cieco di tanto amore, amore
Il giorno degli innamorati mi attraverserà nei ricci
E, sarà primavera nel mio cuore, con te
In un valzer di sonetti segreti per consolarci.

Canta con il tuo mandolino menestrello di versetti
Sussurri ricordando di ribelli in biciclette
Un amore di noi due come un bagno di sole
Parlando su un treno, al mare, in una stazione.

Lettera sul tuo seno e sui miei palmi
de Ioan Romeo Rosiianu
Traduzione di /Traducere de Lidia Popa

Amore, l’ultima volta che ho fatto l’amore tu eri in piedi e i tuoi capelli lunghi ti battevano sulle spalle
come l’acqua sul vetro inclinato erano i tuoi passi ribelli come Le vergini disfatte di Hortensia Papadat Bengescu
odorava la notte allora, ma non lo sapevi perché l’alba aveva ancora stordito la tua retina
era come una storia conosciuta a memoria e dimenticata da tutti tranne noi
era, Amore, come il sogno dove non avrei mai voluto svegliarmi mai
ma tu non lo sapevi, proprio come non sapevi che cambiare l’acqua nel vino è meraviglia.

(Lo sai ancora quando le nuvole ti hanno toccato i capelli ho predetto la pioggia?)

Era come una maledizione, la nostra esperienza amorevole allora come un tavolo da gioco abbiamo giocato da soli e stavamo sempre perdendo
così bella sei rimasta in cima come se tutte le nuvole volessero scrivere istantaneamente la storia del passaggio attraverso il mondo e il paradiso
così profondo respiravi la mia aria e non sapevi che non avevo nemmeno il diritto di sognare ma sognavo
così eri quando ti piegavi e quando mi proteggevo gli occhi dal tuo seno
non sai quanto mi sia piaciuto, ma che male mi ha colpito la tua lontananza.

(Lo sai ancora, quando volevi andartene ti ho detto di non guardare indietro che non vedi bene avanti?)

La maledizione era il nostro rapporto, Amore, bloccato come uno stiletto nel mio cuore polveroso di mancanza
una brama per il narcomane ho ispirato il sentimento e il dolore finale del mondo lontano da te
da allora in poi anche gli eroi in molti libri non mi parlano più
i dipinti alle pareti si rifiutano di rassicurarmi su cosa ti fa sembrare pazzo nel mondo
gli amici se ne sono andati un po’ e sono rimasti soli all’Ultima Cena e io mi vendo sempre
come se volessi essere sicuro che presto sarò crocifisso con uno spiedo picchiato umiliato e ferito dalle lance della pioggia.

(Lo sai ancora, al mattino, quando il gallo ha cantato tre volte, abbiamo fatto l’amore una sola volta?)

La maledizione era il nostro rapporto, Amore e ora, mentre scrivo, sento di respirare sotto il peso della vita
che i giovani lupi del mondo mi stanno osservando inginocchiandomi per farmi a pezzi
come se l’amore fosse proibito ai poeti, Amore così si comporta la luce con me.

PAROLE CELESTI
di Franco Di Carlo

gli parlò muovendo appena le labbra
di pietra quando le chiese consiglio
e con la luce tremula gli inviava
visioni e canti figure e parole
celesti imprese eroiche e profezie
immobile giaceva la sua prole
in attesa di incanti e di peripezie
vaga lontana oscurità profonda
notte muta incerta indistinta
fede netta e pura confonde il cielo
al limitar intorno della selva
incantata antica valle dipinta
riflette i raggi della nuova luna
su colli casolari e pergolati
ineguali figure indefinite
irregolare flusso nell’ondosa
primavera la nottola che vola
sulla grondaia tra alberi d’alloro
pietre cristalline mare di rosso
primordiale infine emise sentenze
segni Cifre e lettere di verità temi treni e lamenti
definitivi infinita leggera
esattezza temeraria del nulla
lucente voce ardita nuovo canto

Il Sogno di Usagi
di Tamar Niederdorf

Che il fiume mi trascini via.
Vorrei che le sue acque avvolgessero con grazia
i miei lunghi capelli e che, in stato di incoscienza,
mi guidassero nei luoghi dell’Altrove, finalmente
distante da queste vecchie terre, su cui sono
solita camminare, abbondanti in sangue, spine ed abbandono.

Ti ricordi di Usagi?
Qualche volta, nel segno dell’infanzia perduta,
sogniamo altre dimensioni.
Vorremmo risvegliarci nella Luce della Luna,
ormai salvi dal deserto che ci affligge e ci
crivella con la propria siccità.

Che il fiume mi trascini via.
Che lavi i miei capelli e risani il mio corpo stanco,
provato fino alle giunture.

Incosciente, vorrei andare via sino alle terre dell’Altrove,
per dimenticare le ferite che di notte, a trent’anni di distanza,
mi tengono ancora sveglia.

Ti ricordi di Usagi?
Abbiamo bisogno della Bellezza che sfiora
il Sogno, quand’anche non fosse realizzabile.

Che il fiume mi trascini via e strappi dalla
mia pelle e dalle mie labbra il deserto stanco
che mi affligge.

Il profilo di Enceladon
di Giorgio Linguaglossa

Frammisti alla nebbia, sul davanzale della finestra, brilla
il rosso geranio del mattino; a sera è ancora là.
Nel fotogramma della finestra il tuo volto, di profilo,
trascorre da destra a sinistra, torna indietro,
contro la direzione del tempo, alla ricerca dello spazio,
si dirige verso la cornice ed esce fuori del quadro.

L’orologio da polso che per dieci anni si era fermato
ha ripreso a camminare, i bambini fuori della finestra
cantano in coro Happy Birthday to you
mentre il televisore dice che è esplosa una bomba a Bagdad.
Sulla rastrelliera ci sono, ora come allora, i cappelli di Enceladon
le sue sciarpe colorate, i soprabiti; e c’è ancora il suo profumo.

a Saffo posso rispondere solo per frammenti
di Annamaria Ferramosca

Afrodite amica al mio fianco
le sue dita —- tocco
che abbrivida le aree cerebrali —-
che s’immergano pure
nei più nascosti umori nelle cellule
—- soffio estrogenico—- imbeve
pelle respiro aria che muove
a Gongila l’orlo della veste e sommuove

sottilmente erose da eros
noi —- potenza-luce che oltrepassa il tempo
canto indelebile —- sfama le Muse —-
canto ci sorprende
sull’ultima nota a labbra aperte
gli occhi rovesciati —- in alto
l’arco di lunartemide intatto

non odio più le rughe che verranno
se tempo e lontananza non ti annullano
va’ pure, arriva lo sposo febbrile (imeneo)
raccoglierà fiori d’oro (imeneo)

si abbatte su me la notte
ma in sonno—-
ruota una nuova luna—- dormo
sola ma non sono sola

da Andare per salti, Edizioni Arcipelago Itaca, collana Mari Interni, 2017

Variazioni in versi
di Mark Bedin

V.
Necessito bisogno di pelle a me sconosciuta
disutilaccio vagabondare -, che sia il troppo
non riuscire a stare come a dipendere dagli altri
per affetto. Sporsi nell’argenteo riflesso del vassoio,
come di Narciso la fronte – forse, il suo vizio fu in misura
minore uno sbaglio -; delle narici all’apertura, ferine,
un fronteggio alla mia sanità con tubicini in plastica
dalla lunghezza dei pollici, alla ricerca d’una santità
per pochi rintocchi!

In che dose ricorda – come
nel quadro di Géricault -, l’isterico cannibalismo
che l’essere sempre più stimola poiché solo riporta
in pensieri questa vita di morte dacché già tutto finisce

«Conceda Dio a tutti voi, a voi santi bevitori,
una morte lieve».
di Gino Rago

La mattina del 23 del mese di…
dell’anno 1939 cadde a terra di schianto

come Andreas
della leggenda del santo bevitore.
Era nel caffè Tournon,
dove aveva scritto per anni e bevuto calvados
fino a perdere il senno.
Non fu portato nella sagrestia della chiesa di Santa Teresa
ma all’ ospedale Necker.
Lo legarono con cinghie al letto
come l’ultimo dei mendicanti.
E non ricevette nessuna cura.

Il 27 dello stesso mese morì,
il giorno 30 il funerale al cimitero Thiais,
nei sobborghi di Parigi.
Un messo di Otto d’ Asburgo

pretendente al trono d’Austria
elogiò in lui
«Il-fedele-combattente-della-Imperial-Regia-Monarchia».
Un comunista gli rispose con rabbia
che il morto era stato «Joseph il rosso».
Un sacerdote cattolico benedisse la salma.
Tutti gli ebrei presenti furono offesi
dal fatto che un ebreo
che discendeva da generazioni di devoti ebrei
fosse costretto in una religione non sua.

Forse il morto fu contento dello schiamazzo
sulla sua tomba di periferia.
Era stato monarchico e rivoluzionario, ebreo e cattolico,
pagano e musulmano.
E bevitore (sebbene non santo).
Abitò da solo l’aereo regno-di-non-dove
chiuso nella stanza del Bioscopio universale.

Un cavallo lipizzano alzò per un istante
la zampa destra in segno di commiato,
il lampadario cadde sui legni della sala del valzer,
Shearazade pianse.
La contessa W. della milleduesima notte
sgranò gli occhi dai riflessi di violette e miosotide.
E tutti i presenti se ne innamorarono.

Joseph Roth da allora è di tutti.

Cuore di marciume
di Lidia Popa

In quell’orizzonte esitavo
finché non ho incontrato questi paesaggi sperduti
dove le lacrime hanno preso forma,
e la nebbia avvolgeva la tristezza sprecando l’orgoglio.

Ho spinto la denuncia oltre la mente
nei porti di pace sotto diversi cieli,
in spazi che rendevano l’equilibrio stabile
una bilancia con un’unica misura: l’Universo.

Ho crocifisso la speranza nelle aspirazioni azzurre,
come un soffio di seta compromettendo la felicità.
Nei dintorni dell’esistenza alloggiava la nostalgia.

L’ombra lasciata dal cuore di marciume
con frenesia degli errori senza rivali.
Amo la parola senza ambizioni.

L’insopportabilità del silenzio
di Anita Napolitano

 

Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io
e mio padre e mio fratello
non ci interrogassimo
del perché di quello che è stato
e quella neve scendesse
come sempre copiosa all’equatore.
Vorrei poter rivedere e risentire
quella tua voce ferma,
quel tono solenne, quel tuo sguardo fiero
e perdermi nella bellezza dei tuoi occhi
Vorrei che quel giorno terzo,
in quel tempo uggioso
non fosse mai arrivato
e quella data che, segnò
i nostri destini fosse cancellata.
Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io
mio padre, mia madre e mio fratello
non fossimo una famiglia felice,
una di quelle desiderate.
Vorrei fossimo guerrieri al fronte,
disarmati dei nostri pregi.
Vorrei ci potessimo dire quell’indicibile,
quelle verità mai emerse,
l’ insoluto è spada.
E vorrei che tu, madre mia
non fossi buona,
la bontà è una virtù di pochi, non ha confini,
non demarca orizzonti,
solo lunghe distese
e prati assolati e il sole brucia.
Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io
e mio padre e mio fratello fossimo ancora qui
perché il silenzio è insopportabile.

per info email: periodicoonline.lidodellanima@gmail.com

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Numero 7

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 dicembre 2018

Minuetto poems

Lidia Popa vi augura Buon Natale e Anno nuovo pieno di frutti in poezia!

Mio Natale da bambina
di Lidia Popa

Ricordo la mattina della vigilia.
Che fremito, che sussurri tra i miei!
Che formicolio nello stomaco tenevo!
Odorava la casa di pino bianco
e tutto si svolgeva in gran segreto.
Non tutta la casa aveva il riscaldamento.

L’albero era l’ospite atteso!
Noi lo spiavamo dalla finestra.
In quella stanza faceva tanto freddo,
faceva molto bene al fresco alberello.
Le finestre avevano tende di lastra
sottile e brillante di ghiaccio.

Incuriositi soffiavamo per scioglierlo.
Era un inverno qualunque degli anni settanta.
La notte si avviava con canti e latrati dei cani
nel villaggio, con voci dei bambini
che suonavano l’arrivo di una stella
alta nel cielo, chiamata Gesù bambino.

Con i piedi e le mani gelati andavamo
a fare auguri ad ogni casa che ci ospitava.
Tornavamo infreddoliti con le tasche piene
di noci, mele o pere e qualche soldino,
regalato da un generoso zio o vicino.

Eravamo felici con l’animo colmo!
Ci addormentavamo tra fresche lenzuola
in odore di buono che mamma aveva cucinato
per il gran giorno del bambino desiderato.
La notte passava in fretta con battito di ciglia
sognando i canti sul viale e l’arrivo del Babbo
Natale. La mattina eravamo contenti.
L’albero spoglio aveva nuove vesti.

Mele, arance, biscotti, caramelle e cioccolatini
pendevano di proposito per i bravi bambini.
I genitori stanchi ancora riposavano nel letto
quando noi strillando di gioia e saltando
dicevamo in tre: Mamma, papà!

Babbo Natale è arrivato!
Nessuno lo ha visto…
Da dove è arrivato?
I nostri genitori sorridevano felici.
Forse qualcuno lo abbia incontrato!
Nella notte dei canti quando siamo assentati.

Il vecchio Gerola con barba lunga e bianca
vestito di rosso con una grossa cinta
e un sacco, forse era venuto giù dal cammino
o come uno spiffero dalla serratura
della chiave, mentre i bambini dormivano,
sognando le stelle che illuminavano il cielo.

Una bambola di pezza, un trenino di legno
un libro di favole, ognuno aveva il suo
regalino. “E per voi mamma, papà?
Per noi un mestolo dietro la stufa, va!”
Rispondeva ridendo papà accendendo una candela.
E mamma canticchiava in cucina una “colinda.”
*colinda – canzone natalizia rumena

https://youtu.be/jcdZ_c0FkL0

NATALE
di Anna Manna

È fatto di giorni
Che si accavallano
Nella memoria
È fatto di ore che si prolungano nelle sensazioni
Dell’infanzia
È fatto di dolci
È fatto d’amaro

Quella voglia di casa che resta
Quella voglia di fuga
Che torna

Quel fiocco dorato annerito
Quel fiocco rosato appena arrivato

E’ fatto di tutto
È fatto di niente

Chissà se davvero resiste
Chissà se davvero esiste
Chissà tra dieci anni chi torna

Il conto non torna

Adesso mi sembra di cadere
In un lungo infinito sbadiglio
È meglio dormire
Insieme ai pastori
Scaldati da qualche dolcetto
Perfetto Natale di ieri
Aspetta un momento
Attardati ancora
Non farmi pensare
Ancora un sapore
Un ricordo
Un accordo
Una nota
Dormire
Almeno vicino a quel bue che riscalda
Ad un asino piccolo e paziente
Ad un padre amoroso
Ancora vivente
Ad una mamma senza profumo di niente
Se non di cucina
…alla fine incontrare i Re Magi
Riuscire a carpire almeno un po’ d’oro
Domani mi sveglio
Stasera aspetto che torni la zia
Mi dia
Carezze d’infanzia
E dolci e regali
E stringa le mie piccole mani

E sono mill’anni che zia non c’è più!

L’anima mia è magnolia
de Marioara Visan

L’anima mia è magnolia in fiore
nella primavera soleggiata,
che apre il petalo
quando il pianoforte tace,
diventa eco d’armonia
da vivere in una sinfonia.
L’anima mia è pennello che colora
l’eterno quadro della vita
che dipinge lo splendore
nel decoro ancestrale.
Le magnolie, nella gioventù,
erano infinita gioia.
L’anima mia è poesia,
quel che m’è rimasto dal libro della vita,
vissuta intensamente, con frenesia.
Senza tener conto dell’orologio del cuore
dimentico il dolore, la tristezza,
una poesia ancora non letta.
L’anima mia è magnolia disfatta
sulle ali s’innalza nell’eterno
colore e musica celata
in una gemma
di bellezza suprema.

LA NEVE
di Elisabeta Iosif
traduzione dal rumeno in italiano di Lidia Popa

L’immagine dall’amore di neve, dal pensiero si sta seduto
Germogliato in malve con il loro meravigliato volto
Sento gli alberi vibrare – il crepuscolo dagli dei, infiammato
Ogni uomo è un albero abbracciato e nevicato!

Il ladro
de Alina Olga Perca

Due piedi che camminano
nel silenzio e buio della notte,
pasi estranei si sentono alle spalle,
paura nel cuore
mani forti che afferano
trascinando il corpo innocente
nel luogo nascosto
butandolo sul la terra umida.
Mani e piedi provano invano a difendersi,
boca che implora
una mano lo copre
vestiti vengono strappati
poi…”il ladro” ruba qualcosa
che non potrà mai restituire.
Due occhi brillano di piacere
e altri due piangono di dolore
“Il ladro” ruba e fugge
lasciando nel fango la sua vittima.
Le mani provano a trascinare proprio corpo verso una luce
prendendo con le dita l’erba e la terra umida
quel corpo sente dolori dappertutto ma non mola;
pensa che almeno “il ladro”
qli ha lasciato quelo che ha di più prezioso:
LA SUA VITA
e poi… silenzio.

Dall’oblio, una colpa o forse una maledizione
di Lidia Popa

Se ti manca un punto o una virgola
per favore, scrivi con la mente quando mi leggerai.

Non farmi colpa per gli occhiali
quelli che ho dimenticato sul tavolino sotto il portico.

Hanno lasciato che gli occhi si contrattassero con le ombre
ritoccando le pareti in cerca di una rima.

Si ritroveranno in un verso bianco
al braccetto con la luce degli iridi

Non si vogliono in attesa.
Un unicorno mostra la via.

La poesia non ha il corpo di fata,
accelera come una nebbia attraverso i secoli.

Fa una reverenza al giorno come una croce di legno
galleggiando sull’acqua, si consuma, diventa una riva.

Dalla costa crescono radici e rami,
sui rami una maledizione di testi.

Per sapere chi eri. Per sapere chi sei.
Quando l’eternità ti chiederà di scioglierti insieme a lei.

Rap degli inadeguati
Anna Maria Curci

Scomodo rap degli inadeguati,
dei senza tetto, degli sballottati.
I senza terra della crisi che li inghiotte
ritmano il canto delle scompigliate rotte.

Mi dice Sdenko: non c‟è più il cantante,
volato via in una notte come tante,
tra nebbia e nebbia il suo paese lo ripiglia,
c‟era una festa, eran le nozze della figlia.

Maria Carmela mi sorride imbarazzata.
Dice: lo sai che da ragazza ero una fata.
Tu ancora parli di Natale e farsi dono,
ma è solo fame che al mio canto dona il tono.

A Valentino che dei numeri era il mago
qualcuno ha detto: niente studi, non ti pago.
Respira piombo e trascina cianfrusaglie,
non conta più neanche i buchi delle maglie.

Mihai e Anna si stringono la mano,
la fiaba-incubo li strappa da lontano;
i graffi e i solchi ormai li sanno in mille lingue
come le fughe dal macigno avido e pingue.

Sommesso rap di respinti e di sfollati,
sfonda il free-style dei recinti ammaestrati,
si unisce a voci tenui e forti al loro fianco
e nasce un coro se l‟amore non è stanco.

DONNA
di Iana DE Muro

Giorni di luce e di splendore
ti attendono, donna!
Una nuova alba si profila
all’orizzonte.
Passata è la tormenta
di rigido gelo.
Non più uccelli rapaci
volano nel cielo,
ma bianche colombe,
a disegnare
arcobaleni di speranza.
Una pioggia catartica
bagna la terra,
cancellando
ogni segno di violenza
da millenni inflitta.
Si ferma il tempo
e ricomincia
una nuova era dove
i cuori dei maschi guariti
ti ridonano dignità,
perché tu, donna, sei la VITA!

LA VITA È UN VALZER
di Giuseppe Tacconelli

Abito questo stravagante mondo.
Tinteggiato di arcobaleni
con spruzzate di grigio.
Una pittura ad olio che a volte cola,
non trattiene l’immagine sulla tela.
Rifiuta se stesso,
rigetta il cittadino.
Ma non ne ha colpa.
La vita è un valzer,
se il passo non cambia.
Torna sempre al principio,
tratteggiando affini circonferenze.
Senza calpestarsi i piedi.
Eseguito dall’orchestra dell’uomo
che armonizza quando la ragione prevale.
Nei violini della consapevolezza alberga il peso
di riattare il ritmo.
Renderlo vertigine di bellezza.
Innalzare l’armonico tono
per cancellare il grigio.

Er Presepio
Trilussa (Carlo Alberto Salustri)

Ve ringrazio de core, brava gente,
pè ‘sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa? Si poi v’odiate,
si de st’amore nun capite gnente…
Pé st’amore so nato e ce so morto,
da secoli lo spargo da la croce,
ma la parola mia pare ‘na voce
sperduta ner deserto senza ascolto.

La gente fa er presepe e nun me sente,
cerca sempre de fallo più sfarzoso,
però cià er core freddo e indifferente
e nun capisce che senza l’amore
è cianfrusaja che nun cià valore.

La mia sera della Vigilia
di Lidia Popa

È così difficile per me il Natale,
Quando gli stranieri allungano il loro tavolo.
Piatti selezionati, un abete alla finestra
E il fuoco nella casa che guizza senza intoppi.

È così difficile per me il Natale
Quando il freddo acciglia le mie guance in lacrime.
Sto lottando con la mia dolorosa mancanza di casa
Quando stanca torno di nuovo dalla passeggiata.

È così difficile per me il Natale
Quando vedo il tempo attraverso i cumuli di neve
Il mio cuore si stringe quando vedo i cancelli
Bande di bambini felici e allegri sento cantando.

Non c’è nessuno che bussi al cancello.
Per aprire la porta, per cantarmi.
Per riceverlo in casa per onorarlo volentieri
Con un vino dolce, mele, noci e una torta del cuore.

Non c’è nessuno che venga da me.
Sono andati tutti al loro destino.
Vado alla finestra, in adorazione con la testa
Candela accesa, per salvezza.

E lasciami essere un vagabondo vecchio di anni,
Scriverò anche una lettera a Babbo Natale
Forse leggerà, forse, chi lo sa …
Una mano umana, desiderosa di confortarmi.

Ora mi chiamo Mario
di Mariangela Costantino

Mia madre mi disse un giorno ”Va’ a giocare ma non tornare tardi”.
Ogni sera scavava nella terra e mi nascondeva per non farmi ammazzare.
Ho respirato polvere e fango,
ho udito i respiri affannosi, le urla selvagge,
i lamenti di teste cadute, l’orrore della guerra.
Ho visto cadaveri pendere dalle forche,
corpi mutilati, straziati, accatastati, portati via dai carri.
Guardavo attraverso i loro occhi
e morire è diverso da quel che immaginavo.
Ho visto e sentito tutto in quella buca.
Ho odiato la mia terra, i suoi uomini primitivi, la tirannia, la schiavitù.
Mi portò lontano quella sera, fuggì nel vento e non si voltò indietro.
Forte batteva il cuore, sembrava un tamburo dentro al petto.
Ho scalato montagne nella notte per giorni e giorni, solo.
Ho dormito su cuscini di foglie, non erano il grembo di mia madre.
Ho ferito le ginocchia sulle rocce,
immobili cadaveri impietriti, che come me sognavano il futuro.
Ho avuto paura, tanta paura.
Ho mangiato erbe amare, vermi, sterco.
Ho corso ad occhi chiusi verso il mare.
Ti ho affidato la mia vita, sconosciuto.
Ho visto madri incatenate sul barcone, mammelle pendule,
bambini masticare mosche, volti corrosi, arsi.
Su quanti è scesa l’ombra! Li ho visti, non mi sono lamentato.
Ho visto Dio, ho visto la speranza.
Per quanti giorni e quante notti ho camminato.
Non so spiegare la mia vita.
Non so quanti anni ho, non so quando sono nato.
Tu sei mio fratello, tu sei mio amico, bianchi e belli sono i vostri volti.
Figlio,
ti ho dato abiti puliti,
ti ho lavato il fango dagli occhi,
ti ho aperto la porta,
perdonami,
non ti ho dato un bacio per dirti addio.

Chissà, forse si, o forse no
di Gianni Mazzei

Chissà, forse si, o forse no,
qualche libro parlerà del nostro amore,
come le grandi cattedrali
che si ergono nel suo regno,
Abelardo ed Eloisa,
Paolo e Francesca
Ginevra e Lancillotto ed altri ancora
che vivono irrequieti nella mente
dell’umanità
lasciando ancora miele di baci
e sospiri di sguardi.
Ma ,di sicuro,
tu non resterai il mio presente,
nascosto, umile e transeunte,
come ramoscello di poco conto
sul ciglio della strada,
a rischio di sopravvivenza
per un soffio più forte del vento,
o la fame di buoi che a sera ne ruminano
le tenere foglie.
Condividiamo lo stesso pane,
che nutre oltre l’orizzonte,
il dubbio che non è sterile ansia,
ma talento di rinnovarsi dentro,
tanto da salire,
anche quando è solo la carne ad unirci,
al cielo
per studiare meglio l’assoluto.
Cadrò, come avviene nel corso della vita,
dalla scala
per prenderti il libro più bello,
l’enigma di ogni enigma che conserva,
il mio amore per te.
Nel cadere, io non sarò triste,
bastandomi quel tuo nodo alla gola
nel vedermi scomparire.
Solo nel tempo, ma noi apparteniamo all’eterno.

Con lo stesso bisogno
di Mark Bedin

Con lo stesso bisogno che richiede
al sole il contadino, s’affacciava
il bisogno di poche parole amiche;
c’affacciammo un poco con la calata
sera sulle tremanti tempie, incerti,
che film rispecchia il bianco e nero
dei film ormai passati, -un congiungere
il filo alla cruna-; forse, la nostra
insicura situazione, se pure
soli, su sedie in tela più smunte
(gli altri ancor a seguire tra i campi
una luce), sebbene tutto questo,
ci sedemmo come distanti! E chiesi
d’una partita a pallone, e fu in quella
domanda che percepii il sapore
d’un tuo sguardo nemico.

Ricama d’un dettaglio il succedersi
che pare rimestano ghiaia al vespro
le cicale! Ecco ingrommate ergersi
le catafratte muse d’un soave e estro
coro; poi sarà giudizio! L’asseverarsi
del processo reggitore come infesto
è nell’albo già scritto. Arrivasti,
mio demone, puro, mio tormento;
come di serpenti spire ravvolgesti
ogni ventura membranza. Veleno,
veleno! Ora, quando più mai frementi
dinanzi le greche muse accorrono
le fiacche cicale e di me diranno
schiavo, si faranno, muse, a me mute;
sarà arso l’inferno in cui perdute
ho già liete emozioni; e pur ti amo!

Il Tuo Sorriso
di Pablo Neruda

Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l’aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.

Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l’acqua che d’improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d’argento che ti nasce.

Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.

Amor mio, nell’ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d’improvviso
vedi che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.

Vicino al mare, d’autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.

Riditela della notte,
del giorno, della luna,
riditela delle strade
contorte dell’isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l’aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.

LA STELLA DELL’ALIENO
di Marco Onofrio

“Se potessi andare lassù
su quella stella!”
mi dici trasognando in un sospiro.
Come fosse un luogo più degno,
più bello o straordinario
del gabinetto rotto di casa tua
e non fosse già un miracolo
che esistiamo, pensiamo
e possiamo parlarne.
Anche qui, quaggiù, è universo:
nel posto che ti sembra più banale
nel giorno più imperfetto del dolore.
È questa la stella, su cui l’alieno
vedendola brillare da lontano
sogna di arrivare!

LA VIRGOLA
di Giovanna Iorio

Ho fatto un sogno

un cane e un canguro
una fiamma e una candela

una virgola di notte
tra me e il giorno

prima il cane salta
poi la fiamma sfrigola
infine il canguro spegne
la candela nel marsupio

il tempo non esisteva
era solo una ragnatela
di cielo sulla pelle

il suo disegno leggero
fremeva ad ogni respiro
catturava colori

il mondo intero è lento
sedimento sul fondo
feccia della notte
breccia nella botte
sangue che rimbrotta

Stella costante
di Sabino Caronia

Io mi ci scaldo in questo freddo inverno
come un gatto vicino al focolare
e nella fantasia cerco rifugio
desideroso di mitici approdi.

Così volo all’indietro col pensiero
e l’antica Persefone ricordo
come e qual era al tempo che perdette
sua madre lei ed ella primavera.

Bella me la ricordo e vedo ancora,
costante come stella in fermo cielo,
il suo chiaro, dolcissimo sorriso.

Sì, lo rivedo, ma non serve a niente,
che la luce lontana delle stelle
per la bufera di quaggiù non giova.

A ritroso nel tempo
di Gianni Mazzei

A ritroso nel tempo,
indietreggiando e chiedendo nello stesso tempo,
ora sappiamo
che il destino voleva farci incontrare
e ogni momento si presagiva
il fiorire della primavera; poi
quella volta, alla prima parola fu un fulmine
un lampeggiamento di quei tempi lontanissimi
in cui le menti si corteggiavano
e il corpo non lo sapeva
ma ne sentiva odore e incanto,
come sotto il ciliegio il profumo del frutto
che si piega nel ramo carico e maturo.
All’inizio ci diffendemmo,
lo fa la sorgente stessa
prima di correre lieta verso il mare
nei flutti imperiosi del fiume
e i guizzi dei pesci e del riverbero dell’acqua;
forse ci difendiamo ancora qualche volta
come atavico timore de libertà perduta
eppur sappiamo che solo in questa fedeltà
noi siamo liberi dal tempo e dal destino
possedendoci nel gioco serio di amarci,
come fa il gatto nelle fusa
vicino al cammino nelle tue braccia
sognando quello che di notte poi l’attende
nell’arruffio del pelo e delle lotte.

RIVISTA LETTERARIA  LIDO DELL’ANIMA Anno 2018 – di Lidia Popa

©

per info email: periodicoonline.lidodellanima@gmail.com

Our Ambassadors in the World help the project by promoting it and inviting poets or Institutions to partecipate.

“We must preserve the voice, return to the purity of sound, remove the noise from the words, awaken the primordial sound of the wind, give back to poetry the power of the voice”.

Yours voice on the website Poetry Sound Library poetrysoundlibrary@gmail.com

I nostri ambasciatori nel mondo aiutano il progetto, promuovendo l’iniziativa e invitando poeti o istituzioni a partecipare.

“Dobbiamo mantenere la voce, ritornare alla purezza del suono, eliminare il suono delle parole, risvegliare il suono primordiale del vento, dare alla poesia le voci del potere”.

Cari amici poeti di lingua italiana ovunque nel mondo, inviate la vostra voce registrata a questo grande progetto senza scopo di lucro che include già oltre cento poeti dal mondo della poesia. È uno dei progetti a cui ho partecipato e continuerò a sostenerlo per la sua originalità. Vale la pena essere conosciuto e la tua voce di rimanere. La poesia merita. La lettura può essere nella linguuesto  progetto parla di poesia internazionale. Questo non è un progetto redditizio, non lo è una competizione e tutti i poeti verranno aggiunti se inviano o registrano poesie di buona qualità.

info: poetrysoundlibrary@gmail.com

LA VOSTRA GENERAZIONE SFORTUNATA

di Giorgio Linguaglossa

à la maniére di Trasumanar e organizzar (1971)

Cara generazione sfortunata dei poetini di vent’anni,
di trent’anni, di quarant’anni, di cinquant’anni, di sessant’anni…
Vi scrivo questa lettera.

Guardatevi intorno:
dove vi sta portando questo treno di feroce mediocrità,
di feroce ambiguità, di feroce ipocrisia?
Guardatevi allo specchio: siete tutti invecchiati, imbruttiti, malvissuti
vi credevate giovani e invece siete diventati vecchi, conformisti,
leghisti, sfigati, banali, balneari…

Che tristezza vedo nelle vostre facce,
che ambiguità, che feroce vanità, che feroce mediocrità:
CL, PD, PDL 5Stelle, Casa Pound, destra, sinistra, pseudo destra, pseudo sinistra,
immigrati, emigrati, referenziati con laurea, senza laurea,
con diplomi raccattati, rattoppati, infilati nel Sole 24 ore,
settore cultura, nella Stampa,
a scrivere le schedine editoriali degli amici e degli amici degli amici,
nelle case editrici che non contano più nulla…
Guardatevi allo specchio: siete sordidi, stolidi, non ve ne accorgete?

Guardatevi allo specchio! Siete dei Buffoni, dei malmostosi!
Che tristezza questa italia defraudata,
derubata, ex cattocomunista, leghista, cinquestellista, renzista…
Voi, Voi, Voi soltanto siete responsabili
della vostra inaffondabile mediocrità,
e non chiamate in causa la circostanza della mediocrità altrui,
della medietà generalizzata,
la responsabilità è personale ai sensi del codice penale
e del codice civile…

Voi, unicamente Voi siete i responsabili
della vostra insipienza e goffaggine intellettuale…
Che tristezza: non avete niente da dire, niente da fare,
disoccupati dello spirito e disoccupati
della stagnazione universale permanente che vi ha ridotto
a mostri di banalità con i vostri pensierini
paludosi e vanitosi alla ricerca di un grammo di visibilità
nei network, nei social, con il vostro sito di leccaculi e di paraculi,
svenduti senza compratori…

Che tristezza vedervi tutti abbottonati, educati e impresentabili
in fila dinanzi agli uffici stampa degli editori
a maggior diffusione nazionale!
Che tristezza nazionale!

Caro Pier Paolo, quel giorno di novembre del 1975
io ero a Roma, scendevo alla fermata del bus 36
(catacombe di Sant’Agnese) per andare a via Lanciani
al negozio di scarpe di mio padre quando seppi del tuo assassinio…
Capii allora che un mondo si era definitivamente chiuso,
che sarebbero arrivati i corvi e i leccapiedi
e i leccaculo, i mediocri, i portaborse…

Lo capii allora scendendo dal bus la mattina,
erano le ore 8 del mattino o giù di lì,
e capii che era finita per la mia generazione e per quelle a venire…
Lo ricordo ancora adesso. È un lampo di ricordo.

scritta in diretta, sul sito L’Ombra delle Parole il 26 settembre 2017 alle 14:17

Fonte:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/14/invettiva-di-giorgio-linguaglossa-ai-poeti-di-oggi-il-monito-di-franco-fortini-spostare-il-centro-di-gravita-della-poesia-italiana-il-monito-di-eugenio-montale-la-mia-musa-ha-las/

RIVISTA LETTERARIA  LIDO DELL’ANIMA Anno 2018 – di Lidia Popa

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© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Numero 6

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 settembre 2018

Minuetto poems

VOCI

Ha pochi giorni l’inverno
di © François Nédel Atèrre

Ha pochi giorni l’inverno, non suoi
di una montagna facile, vicina.
Dice che viene, e può finire presto,
l’estate di collina. Intanto manda
abili messaggeri, pioggia e vento
che si risolvono. Sconsiderato
il trillo o il grido di qualche animale
ti chiama fuori. Ti avvicini al sonno
mio quando rientri, e ci versi pensieri.
Nel rebus prendi quello che ti piace,
le case, poche, e sull’arco di roccia
metti una croce. Col ferro battuto
fai campanelli, nomi sulle porte.
Restaci quanto vuoi, qui non c’è fretta.
Non sai che cosa ci aspetta, in città
che cosa ci prepara il vero infame.

In ufficio
di Maurizio Mazzurco

Liliana è morta in tre mesi
per un tumore al pancreas,
il marito di Giovanna d’infarto
nel sonno, la morte del giusto.
Gino, operato di liposarcoma,
ha affrontato un infarto in convalescenza
e deve essere rioperato al rene.
Renato non ha potuto ancora
essere operato d’aneurisma
all’aorta per disordini alle coronarie.
La moglie di Alberto operata al seno
(echeggiano i commenti
“anche mia moglie”
“due anni fa anche mia moglie”)
dovrà sopportare una pesante
chemioterapia. Luciana già depressa
è caduta scendendo dal treno
e si è rotta il polso.
Seguono enfisema polmonare,
piccoli infarti, lombosciatalgie,
mal di schiena, bronchiti, mal di denti
diverticoliti e ascessi in ordine sparso.
La mamma di Luisella sta morendo
per un tumore ormai diffuso.
“Restate uniti quando non ci sarò più”.
Ci guardiamo costernati cercando
una tregua, guarire. Lavoriamo
ancora, dopo oltre trent’anni,
con l’amor proprio della vecchia scuola,
senza più gli antichi privilegi
anzi maltrattati semmai
senza pudore, invecchiati,
induriti eppure indifesi.
Qual è il confine
con le chiacchiere da bar, da ufficio
postale o da cena Trimalchionis?
Ci prende timore per aver scoperto
nella carne che siamo fantocci
di fango, mantenuti insieme
da un complesso sistema di circostanze.
Chiudiamo una giornata molto piena
che certo non farà storia del mondo
e come mi hanno insegnato
(ricordo in merito una vecchia circolare)
faccio clear desk.
Usciamo lieti che sia ancora giorno
nel pomeriggio di fine inverno.

di Giorgio Linguaglossa
[…]
Chiatta sullo Stige.
Luttuose gondole fluttuano cariche di morti.
Piceo fondale.
Il barcarolo canta a squarciagola.
Il gondoliere traghetta le anime ancora pesanti dei morti.
E canta.
Essi si chiedono: «Siamo morti?
Veramente morti?». «Siete morti per sempre
– risponde il gondoliere –
Per sempre e mai più».
[…]
Evgenja Arbugaeva, la sua casa in Siberia.
La porta dell’izba aperta sulla neve,
e la Torre costruita con i prosperi e l’orologio da tasca.
La Torre del faro e l’osservatorio sul tetto dell’izba.
India. Anni Novanta. Traffic of Sakurabana.
Luci che si accavallano su altre luci.
Steven Grieco Rathgeb è là, prima della lontananza nostalgica.
Madrigale per violino solo con otto nastri magnetici.1
[…]
Una grande ombra sulla chiatta. Bianca.
Dritta sulla prua. Odore di nafta.
A poppa il vogatore che voga verso l’isola dei morti.
Rocciosa a strapiombo un’isola montuosa nel mare plumbeo.
Attracchiamo sulla sabbia nerastra.
«Questa è l’isola dei morti», disse un gendarme
ma la voce si perse nel luteo fogliame
della sponda.
[…]
Un altro gendarme gridò:
«Elpenore, anche tu qui?».2
«C’era una reggia sontuosa. E tanto vino».
«E poi?».
«Devo esser caduto nel sonno».*
[…]
«Sono stato dio, filosofo ed eroe.
Sono Agrippa postumo, l’ultimo sostenitore della repubblica.
E adesso sono qui, in esilio su quest’isola maledetta.
Le onde del mare fanno ingresso nel mosaico del peristilio,
giocano con la figura di Narciso che guarda lo specchio,
e indica la fugacità delle cose.
Il che è un modo complicato per dire che non sono».3

1 Pezzo musicale di Bruno Maderna
2 Elpenore (gr. ᾿Ελπήνωρ) Nell’Odissea, uno dei compagni di Ulisse. Alla partenza di Ulisse dalla casa di Circe, si alza di fretta dal tetto dove, ebbro di vino, si era addormentato e precipita, perdendo la vita. Rimasto insepolto, la sua ombra risale dall’Ade e prega Ulisse di dargli sepoltura.
3 Personaggio realmente esistito esiliato sull’isola di Pianosa da Augusto in quanto suo oppositore politico. Visitai la villa dove Agrippa passò l’esilio, e vidi le onde del mare che invadono il peristilio con il mosaico ancora perfettamente conservato che si inabissa.

Le dame di Renoir
di Matilde Ventura

Quaranta punti di sutura nella carne
l’uno vicino all’altro
brillano preziosi come grani di un rosario.
Quaranta pensieri lucidi e testardi
fissati nella testa
come chiodini colorati alla lavagna.
Quaranta domande tatuate sulla pelle
interrogazioni senza risposta
che troveranno un senso
nei giorni che verranno.
Quaranta Ladroni
faceti e rumorosi
colpevoli di rubare il sonno
alle mie notti senza luce.
Quaranta sogni appesi al cuore
come tele alle pareti
sono le dame di Renoir
sedute sull’ erba
a catturare il sole e sorridere alla vita.

Un dono se ho è un semplice caso
di Lidia Popa

Non ti posso aiutare nelle parole che tramutano
il lieve accento sul passato remoto stordisce.

L’occhio strabico sposta l’asse e la parola
diventa nebbia santificata.

Sopra la croce una colomba bianca.
Il desiderio di pace nutre una speranza mai persa.

Nel ringraziar per il raccolto di settembre arrugginito
è un pastello che tesse trama sulla colina.

Un dono se ho è semplicemente un caso.

C’è un intreccio tra la poesia e la vita, così stretto
e perfetto dove il filo del successo può solo abbellire.

Poesia è come l’argento nei capelli,
con il passaggio del tempo ha un senso che dona il rispetto.

La tinta può donare solo tanti nuance,
rimane solo un artificio

per stare a passo con la moda,
di quale si può facilmente disfare.

Un dono se ho è semplicemente un caso.
© Lidia Popa

Sono lunatica
di Franca Billa

Ho seminato con la luna calante
E pescato con quella piena.
Ho danzato i miei Esbat
Sotto la sua luce da strega.
Ho sentito il suo flusso dal ventre
Scivolare dentro le maree
E guardato le carovane partire
Dalle sue orbite senza palpebre.
L’ho vista farsi grande
Negli occhi dei gatti randagi
E annegare dentro il pozzo
ricoperta di foglie morte.
Ai suoi raggi ho appeso le mie notti
Mentre arricciava il profilo delle onde.
Tante volte ho cercato riparo nel suo lato oscuro
Puntando il dito contro il fato.
Sono lunatica!
Come lei sembro vicina
Mentre mi muovo per gravità distanti.

NOTE VOLUTTUOSE

di Giuseppe Tacconelli

Tango dal ritmo serrato,

scandito da un’implacabile bandoneon.

Linguaggio fisico.

Menti in sensuale concentrazione,

fissandosi negli occhi fiammeggianti.

Allacciati con braccia e gambe

che afferrano e lasciano.

Sudore rovente scivola dalla fronte,

a bagnare le guance.

Liberi di esprimersi roteando sul palcoscenico,

con variazioni sgorgate dai capricci di fantasia.

Armoniche passioni che si rinnovano passo dopo passo,

sempre più rapide e mai eguali.

Avvolti da musica di crescente cadenza.

Frenesia nell’inseguirsi.

Paura di perdere la necessaria sincronia.

Il contatto corporeo vissuto come passionale amplesso,

assecondando i cambiamenti di movenze.

Fino allo smorzarsi dell’ultima nota,

boccheggiando nel suo ultimo eco.

Dal libro “Vorrei che quel domani fosse oggi –

 Riflessi d’amore e vita” Edito da Enoteca Letteraria

Addio Frida
di Mariangela Mascia

Opporre resistenza alla paura di vivere
Non possiamo suicidarci ogni giorno Frida
Non possiamo ingrossare le vene
fino a farle scoppiare
accorgendoci poi che dentro
erano solo plastica liquida
Il mondo è un enorme oscenità di fatti e misfatti
Chi non ha sbagliato molto è morto per primo
Chi non ha rimorsi non è privo di errori
I ragazzi lanciavano sassi dal cavalcavia
non erano cattivi solo stupidi ragazzi
senza il pudore di un solo pensiero
di un ragionamento
Per essere madre bisogna avere fegato
Non si saprà mai quel che pensa
e fa davvero un figlio uscendo dalla porta di casa
Per essere una buona madre bisogna avere tempo
semplicità e buona volontà
Oppure essere stata una cattiva figlia
come me che non sono diventata madre
per pietà verso me stessa
Non avrei sopportato di nuovo
tutto ciò che ho combinato
da un mio pezzo di carne
Tacciano per sempre le paure
Si muore così tante volte prima di morire
che poi che volete che sia la morte
se non un addobbo in più all’albero di natale
Bisognerebbe eliminare le bombe
che tutti abbiamo al posto del cuore
Ci mangia gli occhi il tempo un po’ ogni giorno
Le morti veloci non hanno il fascino
di una lunga agonia
Io non voglio nessun fascino
nessuna agonia ma una cosa pulita
veloce possibilmente dolce
Frida te l’ho già detto e te lo ripeto
non possiamo suicidarci sempre
Sono morti in tanti
aspettando ci esplodesse il cuore
Da dove venivano e che speravano
non importa a nessuno
Ognuno è nel suo suicidio lento
Ognuno muore da solo
Addio Frida

Il Tempo ed il Senso
di Alfredo caronia

Il tempo ed il senso bruciano e si consumano
nella stessa direzione
dentro una spirale
sublimata nel fuoco primordiale
che si rinnova nel fragoroso bagliore della morte di una stella
che trascende massa imponente in energia
per l’ ultimo frangente della vita
prima di sfuocare lentamente in candele flebili,
prima dell’ultimo bagliore evanescente !
E così sfuggente saluto anche io questa natura
tra le mani sfuggente fino al buio notturno senza respiro !
Un altro fiato di energia radiante abbagliera’
cancellando il mio fuoco ed il mio fato caduto
ma contemporaneamente rinnovato!
E sopraggiunge l’ Eterno Mistero!

RIVISTA LETTERARIA  LIDO DELL’ANIMA Anno 2018 – di Lidia Popa

©

per info email: periodicoonline.lidodellanima@gmail.com

per info email: periodicoonline.lidodellanima@gmail.com

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Numero 5

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 giugno 2018

Minuetto poems

Anche a  questo funerale mancherò

di Lidia Popa

 

Ho finito di lavare i piatti in cucina.
Ho messo a posto.
Ho lucidato il lavandino.
Ora brilla come l’acciaio appena sfornato.

A pranzo ho mangiato frittata con le patate.
Ho messo tutta la poesia del frigo dentro.
Quattro uova per due porzioni, cipolla e patata lessa,
una grattugiata fresca di Grana Padano.

Ho girato e sistemato tutto
su un piatto da portata.
Apparecchiato. Servito.
Mangiato. Lavato.

Stasera a cena mi è rimasto questo verso.
Insipido.
Oggi ho saputo che è morta la zia.
Lei era un pezzo di pane.

Tante volte una madre.
No, non era come mia madre.
Mia madre è viva.
Mia zia ora è una santa.

Ha convissuto per anni con la cirrosi.
Come mio padre.
Lui è morto nove anni fa, come fosse oggi.
Era quattro luglio del duemilanove.

Era nato in un giorno significativo: undici settembre,
anniversario di morte per l’America.
Per me il quattro luglio è il giorno più triste
che ricorderò per il resto della vita.

Attraversavo la strada.
Il telefono squillava.
Era mio fratello che chiamava.
Erano le diciassette e trentatré di pomeriggio.

Mio padre stava morendo.
Io non c’ero a tenere la sua mano,
a dire che andrà tutto bene.
E bene non andò.

Finii solo per cucinare ogni giorno una poesia dal frigo.
E tanta solitudine marcia.
Volevo solo decorare la morte,
descriverla meno paurosa del vissuto,

contraddicendo chi diceva che ispiro pena,
per aver cercato una vita degna altrove.
Mio padre non ha mai saputo che sono un poeta.
La zia Teodora lo sapeva.

A lei ho letto una domenica alcune mie poesie
fresche di cucina.
Ora incontrerà mio padre e le racconterà,
come so cucinare le poesie dal frigo.

Con un commento alla poesia del critico letterario Giorgio Linguaglossa

pubblicato 23 giugno 2018 sul sito L’Ombra delle parole

La caratteristica di Lidia Popa è questa aderenza al «quotidiano». Il suo quotidiano non è quello appreso alla lezione della scuola lombarda ma quello appreso dalla sua viva esperienza di tutti i giorni: la cucina, il lavaggio dei piatti, la frittata di patate, il frigo, la madre, il ricordo del padre, la zia Teodora… etc. tutto vero, tutte cose vere, non c’è nulla di inventato, c’è la concretezza delle cose vere e vissute e c’è anche la serietà del lavoro per appropinquarsi alla poesia, con semplicità e con umiltà. Una calzolaia della poesia Lidia, senza grilli per la testa, come le poetesse e pseudo poetesse italiane che girano in calzamaglia e con i tacchi a spillo per far vedere quanto sono brave, e invece sono soltanto banali. Sono «poesie/ fresche di cucina», tra una frittata e l’altra, poesia frugali, senza panna, senza zuccherificio, senza l’inutile ironia o l’inutile gioco combinatorio di vocali e consonanti.

Fonte: https://lombradelleparole.wordpress.com/

<strong>Poesie di Tomas Tranströmer, Giorgio Seferis, Charles Simic, Ewa Lipska, Rita Dove, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Lidia Popa, Lidia Are Caverni, – La poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna – Commenti</strong>

nella solitudine nasci, nella solitudine muoi

inumanamente bianco

di Mariana Cornea

scriba

alcuni ti direbbero

strappa con i denti

il più bello suono, spazi senza santi

taglia a strisce sottile la tua carne di taffetà

risplendi scriba, breccia nella polvere

nel grembo risonanza fino al verme

copri il tuo volto, con chi ti ha abbandonato

dietro le palpebre pulisci gli specchi

tanti quanto ne deve, cucia la pietra alla conchiglia

torcendoti le mani, legno dà ardere per l`inverni

venti nascosti sotto la pelle degli angeli, soffiano coltelli

mercanti di pelliccia, collezionisti di gabbie

corrono più storti, corrono più retti

proprio come la nascita delle notti,

dal esordio il tuo dio sta fermo, sul bordo del tavolo

per caso ti sei trovato lì più bianco del silenzio

due – tre minuti e te ne vai come un sussurro fra i denti

 

La sera ci sorprese

di Mario M. Gabriele

La sera ci sorprese

facendo del giorno un rapido declino.

Ti agiti, non sopporti il fumo del barbecue

della signora Polonskij.

Ti rivedo nei colori dell’arcobaleno:

rondine di altri cieli e di altri nidi!

-Qui dura ancora il turnover.

Vado all’estero, mi rifaccio una vita,

troverò un lavoro,

avrò una moglie e dei figli-, disse Simon.

Una stagione infausta si ferma

stretta dalle corde dell’autunno.

Nei vecchi bungalow si contano le ore.

La casa lungo il fiume

non ci appartiene più,

è attracco di pescatori di frodo e di conchiglie.

Max sta finendo Psicostasia politica.

Ti rivedo nel Bacio di Klimt.

Non c’é tavolozza senza il nero.

Quando Marisa tornerà da Dortmund

sarà come un lampo a ciel sereno,

chiederà le catenine di Istanbul,

prima di dire:-oh mamma, mamma,

perché sei rimasta così sola nel silenzio?

Invocazione all’Orsa Maggiore

di Ingeborg Bachmann

Scendi, Orsa Maggiore, notte arruffata
fiera dal manto di nubi, dagli antichi occhi,
stelle occhi,
nella macchia affondano, scintillanti,
le tue zampe con gli artigli,
stelle artigli,
vigili noi pascoliamo gli armenti,
pur da te ammaliati, e diffidiamo
dei tuoi fianchi sfiniti, degli aguzzi
denti dischiusi,
vecchia orsa.

Un cono di pigna: il vostro mondo.
Voi: le sue squame.
Dagli abeti dell’inizio
agli abeti della fine
la rivolto, la sbalzo,
l’annuso, ne saggio il sapore
e l’abbranco.

Temete e non temete!
Gettate l’obolo nella borsa,
all’uomo cieco una buona parola,
perché tenga l’orsa al guinzaglio.
E condite gli agnelli di spezie.

Potrebbe quest’orsa
liberarsi, non più minacciando,
incalzando ogni pigna, dagli abeti
caduta, maestosi abeti alati,
precipitati dal paradiso.

Nel regno delle Eumenidi

(fra mito e poesia)

di Nazario Pardini


Avvenne proprio là. Nel punto in cui
scorre il diletto fiume, verdeggiante
nelle acque che rispecchiano le acacie
rigonfie e le betulle; quasi al termine
del suo fluire dove l’onda stenta
respinta dal libeccio; sulla sponda
rivolta alla marina, ormai matura,
mi apparvero dal volto minaccioso
tre fanciulle severe. Svolazzavano
sopra le loro forme le ampie vesti
sanguigne che cangiavano ora in nero
ora in bianco. Furiose e pien di sdegno
con un unico suono a me si volsero
stridente ed infernale: “Erinni siamo
o, se ti aggrada, Nemesie; lo vedi
dall’abito di pece del momento.
Ci fu madre la notte e genitore
Acheronte che in animo portiamo
rigonfio di uccisione e di indicibile
rancore. Se placate, diventiamo
l’eburnee Eumenidi. Guardaci bene!
Restiamo sopra te sospese in aria
con le materne ali. E ci vantiamo
che serpi attorcigliate sopra il capo
rimpiazzino i bei crini. Illuminate
da fiaccole splendenti
ancor di più risaltano d’orrore.

Gli dèi ci destinarono al castigo
degli uomini in vita coi flagelli
della celeste collera. A turbare
i loro sonni. Li perseguitiamo
con paurosi rimorsi e dilanianti
visioni. Perché soffrano di già
del tartaro gli eterni patimenti.
A noi, temute, omaggi singolari
furono offerti e tanto fu pauroso
il rispetto che nessuno si arrischiava
a nominarci o a porgere lo sguardo
ai nostri templi. Solo sia d’esempio
d’Oreste il gesto. Alzò in fondo all’Arcadia
un’ara per cercare di placare
i nostri tetri intenti. Di narcisi
e zafferano incoronò le nostre
statue; di frutta le cosparse e miele;
una pecora nera ci immolò
e consumò il suo corpo sopra un rogo
di cipresso, ginepro e biancospino.
Fu allora che commosse dai rimorsi
gli comparimmo con le vesti bianche.
Ci eresse un nuovo altare. Incoronò
noi Eumenidi di olivo e in sacrificio
due tortorelle ed una libagione
d’acqua di fonte in vasi con i manici
fasciati in pelle ovina. Proprio là
pretendevano i ministri il sacro vero”.

Intanto il sole deponeva in fondo
all’orizzonte i tiepidi languori
di sopore serale. Sopra il chiaro,
nel punto in cui il mio fiume ormai si annulla
nell’insaziabile gorgo dei pelaghi,
giacevano rosate d’occidente
animelle e poiane. Dalle sghembe
forcelle dei pinastri lacrimava
il pianto delle scorze ricamate
dei queruli richiami dei colimbi.

Sembrava l’astro, nella sua metà
roventata di luce porporina,
volesse richiamare l’attenzione
delle ferali Erinni. Dai loro
occhi sanguinolenti trasparivano
tutti i martìri umani: di Megèra
l’insaziabile invidia; il desiderio
più sfrenato di morte, di vendetta,
di uccisione da quelli di Tisifone;
mentre Aletto traspariva tutte quante
le nostre altre mestizie: solitudine,
spleen, tradimenti, indicibili affanni
dei poveri mortali. Mi sembrava
di essere il solo umano sulla terra
ad espiare i rimorsi. Mi rinchiusi
in un terrore infernale; era un sogno,
certo! oppure vivevo le invenzioni
che avevo immaginate più volte ai
limiti estremi della fantasia.
Si trasformava forse il quotidiano
in onirico irreale
e realtà in sua vece si faceva
l’universo pensato nei miei sogni?
Ma in quel momento vidi farsi verdi
i loro occhi profondi. Come il mare
nell’imo più lontano o come i bronzi
sottratti dopo secoli ai fondali
vidi farsi i loro occhi. Sulle teste
divennero le serpi rami fini
di fulve fioriture e poi capelli
fluenti come i grani dei declivi.
Le braccia glauche come i fondi cieli
opposti ad occidente. I seni ansiosi
si fecero rosati come dita
di un ultimo barlume trasparente
sulle sete nivali. Mi rapirono
le femmine vogliose e sensuali,
benevole oramai. Respiravo
tra i loro afflati e i crini di lavanda
l’aria del maestrale. Mi svanivo
gradatamente nei riflessi pallidi
dell’ultimo settembre. Quale pace
nel lieto regno! Essenza di trasvoli
di suoni, di silenzi, di dolcezze,
di estremi amori il regno delle Eumenidi.

AMAMI!

di Eugenia Serafini

AMAMI

!

!

Amami

Senza PAROLE

AMAMI

come la ROSA di maggio

L’UNICA

Sola

E

RARA

che PROFUMA

del profumo ANTICO della ROSA

!

AMAMI CON IL

CUORE TRA LE MANI

AMAMI COME

IL CIELO STELLATO

AMAMI COME IL

PETTIROSSO SULLA NEVE

IL FILO D’ERBA NELL’ASFALTO

L’ACQUA DI SORGENTE

IN AGOSTO

AMAMI PER FOLLIA

COME LA LUNA A

MEZZOGIORNO

!!!

Mangia qualcosa, Josef.

di Lucio Mayoor Tosi

 

Il piatto si riempie di acqua e cenere.

La tartaruga cammina cammina finché

s’ingroppa la forchetta. Il tavolo si riempie

di formiche, c’è del sangue rappreso

di cane impazzito. Preghiamo:

Fai che finisca presto. E portaci il sapone.

Amen.

Sul ripiano del frigorifero

le mani annerite di Joseph Hassid, il violinista

che suonava a memoria: il futuro in Site of Burr Hole.

Comprese le scarpe e i denti.

Non sapere se siamo ancora qui, muti tra le scansie

di un drugstore, oppure fantasmi.

Nel giardino dei Dobermann tengono sempre

le luci accese.

Carezza letale

di Imma D’Aniello

Nei tuoi occhi leggo l’infinito racchiuso in un abbaglio

e nella voce tremano i brividi di un sospiro

che percorrono la pelle e cadono nel vento

Sei una forza potente che mi assale

che mi annienta

che mi fa toccare il sole in pieno inverno

il mare in alta quota

Sei un vortice nel cuore dove giro senza sosta

inciampando  tra le pensieri spudorati

profumati di purezza

Sei  la gioia che  mi  esplode in   pieno viso

rimbalzando sulle labbra tumide e socchiuse

Passione e peccato di ogni mio pensiero

Sei l’uomo che ruba le mie voglie facendo poesia

Conserverò sulla mia  bocca il sapore dei tuoi baci

ricamati dai sogni proibiti

Tu carezza letale di un’anima persa

prendi pure

osa

chiedi adesso

che io ti concederò  il resto.

RICORDO IL MAGICO ISTANTE

di Aleksàndr Puškin

Ricordo il magico istante:

Davanti m’eri apparsa tu,

Come fuggevole visione,

Genio di limpida beltà.

Nei disperati miei tormenti,

Nel chiasso delle vanità,

Tenera udivo la tua voce,

Sognavo i cari lineamenti.

Anni trascorsero. Bufere

Gli antichi sogni poi travolsero,

Scordai la tenera tua voce,

I tuoi sublimi lineamenti.

E in silenzio passavo i giorni

Recluso nel vuoto grigiore.

D’infanzia e giovinezza

di Donatella Nardin

 

Erano anni di poco e di nulla, inverni

di freddo nel cuore, freddo di tralci

e di filari, di occhi incapaci di scalfire

la povertà di fioritura.

Soffriva anche la luce tra i grappoli

in attesa del turgore, luce incagliata

nella miseria delle pianure

nell’odore acre del fieno dopo le piogge,

l’ostia bianca della fatica delle ore

ad invocare la benevolenza del cielo.

Erano i tempi del bastarsi un po’ sgualciti,

tempi d’infanzia e giovinezza, gioia di sensi

e foglie vive, oro d’incanti e pettirossi,

di giorni densi di sogni dentro al cielo.

Dalla lettera di Bertolt Brecht al figlio

de Krzysztof Karasek

Quando la parola sangue è assente in un verso?
La parola sangue è assente in un verso quando il sangue
è sospeso in aria, quando diventa pioggia. Quando le vene
non lo reggono più nell’ardente involucro del corpo e lo
mettono in libertà e nel futuro.

La parola sangue è assente, quando il vero sangue si
riversa sulle strade, allora malvolentieri si parla di sangue,
la parola sangue scompare dalle enciclopedie e dai dizionari,
i manuali diventano più pallidi, i giornali si ammalano di
anemia, le pagine di storia scompaiono in circostanze
misteriose, la sintassi diventa oggetto di scherni;

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle
necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico
e della sintassi, non risponde alle “reali” esigenze della
lingua, mentre l’uomo qualunque non distingue più un fiore
da una ferita da sparo (si dice allora: i papaveri sono fioriti
nel tempo sbagliato – poiché è inverno – oppure:
il succo di pomodoro si è sparso sulla spiaggia di una città
litorale – perché finisce l’estate, e le acque del golfo
si sono tinte di rosso).

La parola sangue è assente, quando coloro che hanno fatto
versare il sangue, non parlano più di prezzo, ma soltanto
dei profitti ottenuti grazie a questo sangue.

Impara a seguire il seme del sangue nelle pagine dei manuali
di storia e di grammatica, nelle fessure tra le frasi di un verso
irregolare, nelle fessure tra le parole. Impara a leggere dalla
sua presenza e assenza le impronte delle ruote della storia.
Lo schianto delle ossa spezzate e il grido della frase torturata,
che si è iniettata di sangue.

(1982)

Senza più peso

di Giuseppe Ungaretti

Per un Iddio che rida come un bimbo,

tanti gridi di passeri,

tante danze nei rami,

un’anima si fa senza più peso,

i prati hanno una tale tenerezza,

tale pudore negli occhi rivive,

le mani come foglie

s’incantano nell’aria…

Chi teme più, chi giudica?

La vergine di Norimberga

di Anna Ventura

La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
che la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.

TESTAMENTO

di Ermanno Krumm

Lasciare quello che non si ha
è un po’ come avercelo:
lascio perciò la pensione
alla mia socia che non mi dà
pensieri; la mia cattedra al vicino,
un tassista che conosce le strade.
Lascio i libri al cartolaio
che vende gli stessi raccoglitori
con anelli di quattro centimetri
e l’orrenda copertina di tutti
gli altri. È come gli universitari
che conosco, ma lui non se ne vanta.
Vanno così, dice. Lascio mia moglie
al calzolaio che le farà tacchi
più alti dei raccoglitori per fare
passi da gigante e i miei figli
li lasci all’orfanotrofio
che diventino dei buoni a nulla come me.

Chiamando un soffione…

di Irina Lucia Mihalca

Traduzione: Laura Merico

Chiamando un soffione
ritorna

in migliaia di scintille
il richiamo del vento…

Si dice che viviamo nel sogno
il seguito
di una non deperibile vita.

Si dice, solo si dice,
ma non possiamo saperlo.
Ritorniamo qui
da una porta segreta
che cancella i nostri ricordi.

Ci rimangono solo scintille frantumate
che, se chiamate alla luce del giorno
ritornano come ricordi di visioni
con dei desideri incomprensibile
con delle domande
con o senza risposta…

Forse nel sogno
continuiamo la nostra vita
dallo specchio
del tempo incontenibile
oppure è soltanto una pseudo-porta aperta
lasciata a noi mortali
per illuderci con l’immortalità?

Ti amo come se mangiassi il pane

di Nâzim Hikmet

Ti amo come se mangiassi il pane
spruzzandolo di sale
come se alzandomi la notte bruciante di febbre
bevessi l’acqua con le labbra sul rubinetto
ti amo come guardo il pesante sacco della posta
non so che cosa contenga e da chi pieno di gioia
pieno di sospetto agitato
ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta in aereo
ti amo come qualche cosa che si muove in me quando il
crepuscolo scende su Istanbul poco a poco
ti amo come se dicessi Dio sia lodato son vivo.

LA PAROLA DEL FIUME

di Giuseppe Tacconelli

Dolcezza delle parole

rimescolate in mulinelli,

confluenti nel fiume che non divide la foresta,

punto di riferimento umano.

Fresco sollievo all’animo riarso

che si oppone all’affilata ascia,

generatrice di nefaste profezie.

Topi s’intrufolano nel cibo della ragione,

inseguitori nell’ombra.

Spie pronte a mordere

affette da sindrome del potere.

Ma il fiume non si arresta,

poderoso scinde il corso ad argini posti

per poi ricomporre la parola.

Nunzia d’affetto

anche nello scolpito destino.

Straripando nel mare che attende,

verso l’inondato orizzonte.

Nulla è inutile,

la parola d’amore non cade in bui abissi.

Sostiene il coraggio,

anche nell’infausta sorte.

In solitudine vive chi vuol prosciugare il fiume.

Con un semplice bicchiere di carta.

Il vero amore

di Ibn Hazm

(filosofo, letterato e storico spagnolo-arabo, 994-1064)

 

Non nasce in un’ora
il vero amore,
né dà scintille a comando la sua pietra,
ma lento nasce e si propaga
dopo una lunga complicità che lo rafforza.
Invulnerabile diventa
alla noia e agli abbandoni.
Dura poco quanto vediamo
nascere all’improvviso.
Sono una terra dura e rocciosa,
aspra alla vegetazione;
ma se una pianta vi affonda le radici
non deve temere le piogge di primavera.

PATMOS METALITICA

di Salim o’Rock

testo in italiano di Dimitri Coromilas

 

Perché le mie orecchie sono colme dal Kyrie

della Grande Liturgia di Mozart

e perché la suggestiva soprano si avvicenda continuamente

con il dervìs della voce calda e cavernosa

che salmodia bramosamente il Kujiàm Aziz Bahrindi dal Mevlanà?

Perché quando guardo le pietre di Patmos,

lontano dai suoi bei palazzi e dai suoi pii monasteri,

trovo l’uomo che ricevete l’Apocalisse

abitare ancora in una dimora alta appena tre piedi

-un ammasso di pietre – e lui che entra strusciando carponi?

Perché il muro bianco si presenta all’improvviso

tra le rovine come uno schermo vuoto

sul quale si è appena proiettato un film

che nessuno mai vedrà?

Perché esiste una Patmos mondana

che avanza verso il Ventunesimo Secolo,

ed un’altra Patmos nascosta ai tanti

si estende in orizzontale attaccata alle sue antiche radici?

Forse per questo sento commosso e trepidante

la soprano suggestiva

avvicendarsi persistentemente

con il dervis della voce calda e cavernosa;

e sono tutti i due armonici e degni

per quest’ora rosata di Patmos

che s’incammina verso la notte indaco.

Isola di Patmos, 25 marzo 1988

di Alfredo Caronia

Sfogliate righe di gioventù
nei solchi stanchi scavati tra le mani!

Aprite le rughe delle età.
ad un sorriso insospettabile e sereno!

Fate un gioco con l’arcobaleno,
saltando a pie pari

tra i colori del cielo
e Dio vi ringrazierà !

Chiatta sullo Stige

di Giorgio Linguaglossa

[…]
Chiatta sullo Stige.
Luttuose gondole fluttuano cariche di morti.
Piceo fondale.
Il barcarolo canta a squarciagola.
Il gondoliere traghetta le anime ancora pesanti dei morti.
E canta.
Essi si chiedono: «Siamo morti?
Veramente morti?». «Siete morti per sempre
– risponde il gondoliere –
Per sempre e mai più».
[…]
Evgenja Arbugaeva, la sua casa in Siberia.
La porta dell’izba aperta sulla neve,
e la Torre costruita con i prosperi e l’orologio da tasca.
La Torre del faro e l’osservatorio sul tetto dell’izba.
India. Anni Novanta. Traffic of Sakurabana.
Luci che si accavallano su altre luci.
Steven Grieco Rathgeb è là, prima della lontananza nostalgica.
Madrigale per violino solo con otto nastri magnetici.1
[…]
Una grande ombra sulla chiatta. Bianca.
Dritta sulla prua. Odore di nafta.
A poppa il vogatore che voga verso l’isola dei morti.
Rocciosa a strapiombo un’isola montuosa nel mare plumbeo.
Attracchiamo sulla sabbia nerastra.
«Questa è l’isola dei morti», disse un gendarme
ma la voce si perse nel luteo fogliame
della sponda.
[…]
Un altro gendarme gridò:
«Elpenore, anche tu qui?».2
«C’era una reggia sontuosa. E tanto vino».
«E poi?».
«Devo esser caduto nel sonno».*
[…]
«Sono stato dio, filosofo ed eroe.
Sono Agrippa postumo, l’ultimo sostenitore della repubblica.
E adesso sono qui, in esilio su quest’isola maledetta.
Le onde del mare fanno ingresso nel mosaico del peristilio,
giocano con la figura di Narciso che guarda lo specchio,
e indica la fugacità delle cose.
Il che è un modo complicato per dire che non sono».3

1 Pezzo musicale di Bruno Maderna
2 Elpenore (gr. ᾿Ελπήνωρ) Nell’Odissea, uno dei compagni di Ulisse. Alla partenza di Ulisse dalla casa di Circe, si alza di fretta dal tetto dove, ebbro di vino, si era addormentato e precipita, perdendo la vita. Rimasto insepolto, la sua ombra risale dall’Ade e prega Ulisse di dargli sepoltura.
3 Personaggio realmente esistito esiliato sull’isola di Pianosa da Augusto in quanto suo oppositore politico. Visitai la villa dove Agrippa passò l’esilio, e vidi le onde del mare che invadono il peristilio con il mosaico ancora perfettamente conservato che si inabissa.

Quartine

di Omar Khayyâm

(matematico, astronomo e poeta persiano, 1048-1131)

 

O teneramente amata del mio cuore,
porta la coppa e la caraffa,
avviamoci a frugare in un variopinto campo
un nascondiglio d’amore.

Dove limpidamente scorre l’acqua di un ruscello,
o giovinetta, la tua bellezza
seduce la luna
e fa giubilare il cosmo.

Lascia che gli orafi
ritraggano dalla tua immagine
forme e disegni su centinaia di ciotole e coppe
che inneggiano all’amore.

GLI OROLOGI DEI MORTI

di Charles Simic

Una notte sono andato ad osservare l’azienda dell’orologio.

Aveva un forte ticchettio dopo mezzanotte

Come se ci fosse una paura insolita.

É come fischiettare superato un cimitero,

Ho chiarito.

In ogni caso, gli ho detto di aver capito.

Un tempo c’erano orologi di quel genere

In ogni cucina americana.

Ora la fabbrica ha tutte le finestre rotte.

I vecchi del turno di notte sono sulla barca di Caronte

Il giorno che ti fermi, ho detto all’orologio,

I piccoli ingranaggi che tengono di scorta

Saranno rotolati via

In qualche posto impossibile da ritrovare.

Pensando a questo, ho dimenticato di arieggiare.

Ci svegliammo al buio.

Quanto è quieta la città, ho detto.

Come gli orologi dei morti, ha risposto mia moglie.

La nonna al muro,

Ho sentito le nevi della tua infanzia

Cominciare a cadere.

Il sole del mattino

di Sabino Caronia

Quella camera sì che la ricordo!

A sinistra la porta e il mobiletto

marrone, di buon legno, coi cassetti,

di fronte il bianco armadio con lo specchio

e l’altro mobiletto, pure bianco,

poi, lì, a destra, di lato, la finestra

e giù, di fuori, il bel lampione nero

sul marciapiede, tra gli alberi spogli.

Al centro della stanza c’era il letto,

il grande letto colore del cuore.

Poveri oggetti, ci saranno ancora?

Al centro della stanza c’era il letto

e lo lambiva il sole del mattino.

Quel mattino, le sette: quel saluto

come per pochi giorni. Ahimè, quei giorni,

quei giorni, ormai, son divenuti eterni.

Efeso

di Giorgos Sefèris

(1900-1971)

Premio Nobel per la Letteratura

Parlava seduto su un marmo
simile a rovina d’antico portale:
sterminato e vuoto a destra il campo
a sinistra scendevano le ombre dal monte:
“La poesia è ovunque. La tua voce
a volte incede al suo fianco
come il delfino che per poco ti accompagna
vascello d’oro nel sole
e poi scompare. La poesia è ovunque
come le ali del vento nel vento
che per un attimo hanno sfiorato le ali del gabbiano.
Uguale e diverso dalla nostra vita, come cambia
il volto di una donna che si è spogliata,
e tuttavia rimane uguale. Lo sa
che ha amato: alla luce degli altri
il mondo implode: ma tu ricorda
Ade e Dioniso sono la stessa cosa”.
Disse e imboccò la grande strada
che mena al porto di un tempo, ora inghiottito
laggiù fra i giunchi. Il crepuscolo pareva
per la morte di un animale,
così nudo.
Ricordo ancora:
viaggiava sulle coste della Ionia, in vuote conchiglie di teatri
dove solo la lucertola striscia sull’arida pietra,
e io gli chiesi: ” Un giorno torneranno a riempirsi?”
E mi rispose: ” Forse, nell’ora della morte “.
E corse nell’orchestra urlando:
“Lasciatemi ascoltare mio fratello! “.
Ed era duro il silenzio attorno a noi
e non rigato nel vetro azzurro.”

Sono la verità

di Gëzim Hajdari

Sono la verità
di un viaggio e di una linea d’ombra
custoditi sulla terra viva e chiusa
che vuole nasconderci qualcosa.

Vivo sospeso
senza appartenere a nessuna dimora,
al bivio di ogni equilibrio.

Ho camminato con passo lento
fra i morti assetati,
per raggiungere l’alba dell’indomani
di incendi e tregue.

Infinito che mi ospiti,
sono stanco del tempo e del vuoto.

Cos’è il mio frammento
o il tuo frammento?

La mia angoscia diventa orizzontale
come la mia illusione,
sottile diventa anche il muro
che mi difende e mi separa.

Non ho bisogno di denaro
di Alda Merini

Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

Lo volevamo polvere

di Costantina Donatella Giancaspero

Ancora, il cielo, ferito, si schianta
contro la Terra:
lo precipita un Tempo vile,
che imbraccia il terrore
ed è grido di occhi deserti

– come allora…

Lo volevamo polvere, quel Tempo,
remoto – murato nell’orrore stesso di sé,
dei propri massacri, delle deportazioni…

Tempo che uccide ucciso – vivo, sempre,
alla Memoria, perché in essa il cielo
e tutto il sangue della Terra

fosse vendicato – .

In due

di Mario Luzi

da “Nel magma”

«Aiutami» e si copre con le mani il viso

tirato, roso da una gelosia senile,

che non muove a pietà come vorrebbe ma a sgomento e a orrore.

«Solo tu puoi farlo» insistono di là da quello schermo

le sue labbra dure

e secche, compresse dalle palme, farfugliando.

Non trovo risposta, la guardo

offeso dalla mia freddezza vibrare a tratti

dai gomiti puntati sui ginocchi alla nuca scialba.

«L’amore snaturato, l’amore infedele al suo principio»

rifletto, e aduno le potenze della mente

in un punto solo tra desiderio e ricordo

e penso non a lei

ma al viaggio con lei tra cielo e terra

per una strada d’altipiano che taglia

la coltre d’erba brucata da pochi armenti.

«Vedi, non trovi in fondo a te una parola»

gemono quelle labbra tormentose

schiacciate contro i denti, mentre taccio

e cerco sopra la sua testa la centina di fuoco dei monti.

Lei aspetta e intanto non sfugge alle sue antenne

quanto le sia lontano in questo momento

che m’apre le sue piaghe e io la desidero e la penso

com’era in altri tempi, in altri versanti.

«Perché difendere un amore distorto dal suo fine,

quando non è più crescita

né moltiplicazione gioiosa d’ogni bene,

ma limite possessivo e basta» vorrei chiedere

ma non a lei che ora dietro le sue mani piange scossa da un brivido,

a me che forse indulgo alla menzogna per viltà o per comodo.

«Anche questo è amore, quando avrai imparato a ravvisarlo

in questa specie dimessa,

in questo aspetto avvilito» mi rispondono, e un poco ne ho paura

e un po’ vergogna, quelle mani ossute

e tese da cui scende qualche lacrima tra dito e dito spicciando.

La primavera

di Nezami Ganjavi

(poeta epico-romanzesco persiano, 1141-1209)

 

È fiorita la primavera,
il cipresso ha teso alta la sua snella figura,
e la rosa ha aperto ridente la scatola di canditi,
l’usignolo è venuto,
s’è posato sul ramo,
e ampio s’è fatto il mercato del piacere,
il giardiniere ha profumato le chiome del giardino,
ed un re v’è entrato a rimirarlo,
e visto un calice di vino,
lo ha preso in mano,
ma è caduta una pietra e ha infranto il calice.
O tu che hai saccheggiato tutto quanto possedevo,
solo se avrò te sarò felice;
se anche quando sto con te
mi vergogno di quel che faccio,
l’idea d’esser senza di te
non m’entra nel cuore.

Ti chiedo scusa

di Mariangela Costantino

Avrei dovuto, lo so,
non ho trovato il tempo
nel tedio che mi stagna alla radice,
aride, senza senso eran le frasi,
pesanti come sassi alla corrente.

Quelle parole, prima, così distanti,
ora fiorite onde, orti di pace,
fluttuanti succedono a se stesse.
Al capolinea le immagini tremanti,
ubriache di emozioni confondono gli errori.

Ti chiedo scusa per non aver capito
che sotto gli stracci la nudità era dimora
e la felicità che non vedevo
era quel verso aritmico, imperfetto,
sfuggito al pentagramma dell’amore.

Perdona l’umana debolezza
e la miseria che fa tessitura,
ci son cascata, non una, mille volte
e ti ho delusa, non ho saputo amarti.

Vorrei salvare i piccoli frammenti
ed i confini ch’annegano i pensieri,
le schegge divengono memoria,
il battito del cuore dolce culla.

Ti chiedo scusa, quando mi cercherai
sarò in viaggio, in lotta coi miei anni
nel tempo perso a scrivere di un’altra.

Dimentica, se ti ho rubato i sogni,
tu eri il giallo, il verde, il rosso, il bianco,
io un grigio spento che increspava il cielo,
e il mio destino sull’ali di un gabbiano
s’allontanava dall’essere compreso.

Siedimi accanto, da qui si vede il mare,
domani,  anima mia, la nave salperà l’azzurro.
Non chiedo altro che povere speranze,
lasciate lì, al lato della soglia.

NN

di Annamaria De Bellis

 

Un grande salone di specchi e lampadari

di cristallo lucidissimi.

NN lancia il fiato sui vetri.

L’opacità del mondo irrita il suo colon.

Ci si specchia all’infinito sui divani grigio

polvere. I corpi sfatti si adagiano.

Decima Lettera a Ewa  Lipska

[il bacio]

di Gino Rago

Cara Signora Jolanda W.

Oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.

Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,

dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka

[è in polemica con Schiele per «ll Bacio» di Klimt,

l’aria d’autunno si guasta].

Il mio amico* pensando all’altro amico [che ha lasciato Roma]**ha scritto:

«[…]due specchi si specchiano nel vuoto,

illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno[…]»

Musica, pausa, parola, silenzio. Linguaggio senza lingua

o immagini sfocate dell’ “Io” sopraffatto?

Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.

Dal vaudeville in fondo alla locanda:

«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo

è già luce dello sperma siderale»

Scintille

di Marilena Ferrante

 

Amore che intinge il cuore nei tramonti

arrovellati dalla luce tagliente

dei corpi dismessi dal calore .

Amore che presta le sue barriere all’inutilità ,

amore che spinge i tuoi occhi a scorgere

sempre una scintilla nei miei sguardi.

Amore che squarcia la notte con i sibili del silenzio

ed entra prepotentemente nelle mie viscere

a cogliere il seme del peccato.

Travolti , amore, chiediamo compassione

per  i giorni caduti nel peccato,

per argini di sofferenza immersi

nel vuoto crepitio del fuoco

che accende le mie membra e ricorda

il potere delle tue mani poste

a desiderio dei miei peccati.

Forza che macchia le futili giornate , amore,

che imprime la sua presenza ,

ignora il tempo che fugge ,

maschera di azzurro le paure

che regnano tra gli amanti.

Tu amore, prendi i miei sogni per tramutarli

in regole del gioco scampate alla  ragione e al dubbio.

Il turbinio del desiderio si appiana

sulla corteccia del tuo guscio

dipinto dalle stelle che giocano

di notte con noi.

Amore, mai svelato, mai temuto,

mai perduto.

Amore.

Steven Grieco-Rathgeb

Ο Μαϊστροσ – all’Epiro – Vento E Asfodelo

di Steven Grieco-Rathgeb

Quando mi svegliai da questo sogno di cose e persone
ero tornato e non c’era più nessuno.
Solo soffiava costante, tenace come un mastino
attraverso la chiusa finestra
mi soffiava il maestrale attraverso
una fessura nel torace.
Alla finestra soffiava azzurro vuoto il vento
lo stesso che a lungo negli anni portò
avvenimenti luoghi persone, ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio.

Lui che in altre condizioni di tempo, luogo e persona
diventò in mille mascheramenti le tramontane
mareggiate e ventate di scirocco, cozzare di nuvole
e rullio di Golfo, montagne, promontori
fattezze appena accennate su volti fuggenti
ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi e gocce d’acqua
microcosmi che stillano dai rami uno a uno.

Loro continueranno a mangiare pesce
a mangiare sul piattino candida feta: continueranno
nelle stanze fra incrociati letti e masserizie
a morire sotto la croce greca.
La sera accenderanno lumi davanti alle icone
e sarà la preghiera alla Dea Speranza.
Continueranno col nero dei sacerdoti,
con l’ala corvina di quattro secoli e mezzo a sventolare
nel bianchissimo azzurro, a vivere e morire.

Passando da qui, voi avete detto: non capiamo
non vediamo, non cogliamo l’attimo che tu evolvi
pregno di mondo, respiro tenace fuggente nel pensiero
nelle cinematiche figure proiettate
a migliaia su di uno schermo vuoto.

Ma io non scolpisco la luce di Seferis.
Uguale talvolta l’angolo osservato,
il suo mirabile altrove non è mio.
Nel cieco della luce vado rovistando:
nessun asfodelo, solo nerobianche immagini
proiettate furibonde su di uno schermo
che non lascia traccia.

E dove sembra il mare incresparsi obliquo verso riva
il vento soffia nella stessa furibonda direzione
proietta queste nere figure, ricordi e promontori
che non intagliano perché senza sostanza,
ombre nel vento che soltanto soffia luce.
Qui dove risalgono uccelli nell’aria, schegge senzienti
catapultati in alto sul mare verdazzurro.

Di nuovo, illusorie bianche nubi ammassate all’orizzonte.
Di là, verso il mare aperto trasecolando, il limone
ingiallirà al sole, il basilico nell’ombra della pergola,
le nuvole statiche ferme sul retro di casa.
Poi da altre finestre che inquadrano Arta, nella distanza
le catene del Pindo incoronate da cumuliformi.

E nella calma di vento, i vecchi seduti davanti al Golfo.
Possa io parlare sempre di te, involandomi su
attraverso questi taciturni ai tavolini
alle tazzine di caffè vuote annerite.
Sono loro i miei autori: libellule
prigioniere alle vetrate, meglio di me
hanno sognato la vastità.

Promontori visionari in tutta la loro lunghezza immobili.
Mi guardano e guardano con i miei occhi.
E il modo delle acque di sciacquarsi sempre a riva,
le rondini di mare che scompaiono nell’aria stranite.

Perché a lungo andare tutto diventerebbe inspiegabilmente reale.
Poi un giorno rompersi a pezzi. Di nuovo sarebbero altri
quei promontori che nel silenzio guardano se stessi.
Quei promontori guarderebbero solo se stessi.

Ecco perché arrivate quando sono già partito.
Questo è lo studio della luce, gli uccelli furtivi
fra gli scuri specchi d’acqua.
Non ne avete studiato l’immobilità.

E nell’erba, nascosti fra le lagune fuggenti
come innumerevoli cavalli di Troia.
Venuti qui, avete solo detto:
non abbiamo visto, non abbiamo colto l’attimo
che si evolve pregno di mondo, dove soffia il vento
sibilo cavo, triste Φλογιέρα avara d’immagini.

In distanza loro mi guardano immobili
e sembrano il mio sguardo.

Perché le schegge del mio pensiero-luce
potrebbero soltanto nel cielo del proprio rarefarsi
tornare un giorno a se stesse, come le onde
prendere il largo e tornare a riva.

Creando un domani e un dopodomani, il mio cercare
tornerebbe a rompersi su questa riva ancora.

E di nuovo questo mio trasalire al volo di rondini di mare
ferite più intense nell’etere già così splendido.

Di nuovo, nel moltiplicarsi smarrito dei miei futuri
quei promontori guarderebbero solo se stessi.

 

RIVISTA LETTERARIA  LIDO DELL’ANIMA Anno 2018 – di Lidia Popa

©

per info email: periodicoonline.lidodellanima@gmail.com

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Numero 4

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 marzo 2018

Minuetto poems

Il Regno Delle Donne

di Alda Merini

(Italia)

C’è un regno tutto tuo
che abito la notte
e le donne che stanno lì con te
son tante, amica mia,
sono enigmi di dolore
che noi uomini non scioglieremo mai.
Come bruciano le lacrime
come sembrano infinite
nessuno vede le ferite
che portate dentro voi.
Nella pioggia di Dio
qualche volta si annega
ma si puliscono i ricordi
prima che sia troppo tardi.

Guarda il sole quando scende
ed accende d’oro e porpora il mare
lo splendore è in voi
non svanisce mai
perché sapete che può ritornare il sole.
E se passa il temporale
siete giunchi ed il vento vi piega
ancor più forti voi delle querce e poi
anche il male non può farvi del male.

Una stampella d’oro
per arrivare al cielo
le donne inseguono l’amore.
Qualche volta, amica mia,
ti sembra quasi di volare
ma gli uomini non sono angeli.
Voi piangete al loro posto
per questo vi hanno scelto
e nascondete il volto
perché il dolore splende.
Un mistero che mai
riusciremo a capire
se nella vita ci si perde
non finirà la musica.

Guarda il sole quando scende
ed accende d’oro e porpora il mare
lo splendore è in voi
non svanisce mai
perché sapete che può ritornare il sole
dopo il buio ancora il sole.
E se passa il temporale
siete prime a ritrovare la voce
sempre regine voi
luce e inferno e poi
anche il male non può farvi del male.

Autoportreto nel tempo di veglia

di Nichita Stanescu

(România)

traduzione in italiano di Lidia Popa

 

Veglio al cancello del mondo senza l’uscio:

qui, le idee, le nostre parole diventano vere.

Prendono il volto snello dei ponti in cemento armato,

prendono il corpo vecchio dei pontegi in ferro,

le tochi con l’udito e loro hanno suono, hanno tono,

le butti giù con lo sguardo e loro non spariscono,

le tocchi con il corpo, con l’anima, e vedi che sono.

Qui comincia nuovo mondo comunista,

Le parole vuote, le idee spezzate rimangono fuori.

Aria si fanno, nuvoloso, cranio sepolto nella sabbia da animale.

Veglio e sono dritto e alta è la mia ombra.

La constellazione dei miei occhi e attratta dalla stella rossa,

Oh, i passeri possano riposare in esse

come sopra alcuni rami colorati.

Dentro di me il cielo stellato di Van Gogh
(Alle donne)

de Lidia Popa

(România)

 

Ho il rimpianto di chi non ha mai rimpianti;
il frastuono del gesto frettoloso sbagliato,
del tonfo sordo della porta di casa,
del fiato corto che mi prende alla gola,

gli occhi lucidi di un cielo stellato.

 

Ho capelli sciolti e riccioli di miele,
come cani liberi senza alcun padrone;
piedi nudi per camminare sulle strade,
labbra accoglienti e timide di sorrisi,
pelle alla vaniglia e mani morbide di seta.

Ho mattine assonnate da notti insonni,
i pomeriggi di tempesta e le sere di pioggia,
quando le incertezze mi corrono appresso;
l’enfasi di vivere l’alba in un tramonto,
la solitudine ed il rumore dei battiti del cuore.

Ho la luna storta e le stelle comete,
la musica di Chopin sul giradischi, quando

vivo di paradossi bianchi e di neri inchiostri,
di gioia, di dolore, di assenze e di presenze,
di momenti infiniti e di giorni già finiti.

 

Ho sogni che fanno spettacolo ad ogni ora,
un nuovo sorriso da raccogliere in tasca,
gli inverni freddi di neve setacciata,
le estati calde dei mari meridionali,
gli occhi lucidi di un cielo stellato.

Ora dove vado…

di Gianni Mazzei

Italia

 

Può finire anche oggi la mia poesia,
come nell’Eldorado si esauriscono i filoni d’oro della miniera
ed è solo rissa tra ubriachi sognatori e poveri
nei saloon;
effimeri sono i miei versi,
si sbriciolano in un istante da granitici che erano e me ne meravigliavo
non conoscendone l’origine
l’incanto della tua mente ora non più presente,e
non ho più canti
solo demoni, timori, imperdonabile sconfitta,
inconfessabile defaillances.
Né si riparte, non sapendo dove andare, che fare,
il verso resta tecnica,
miserevole, un disco a 75 giri che ascolto scimmiottando a 45 ,
nessuna canta come te,
le canzoni immerse nel sacro anche nel più ardito bacio dato,
e quei saluti, semplici e normali nelle parole e nei gesti
ed erano versetti biblici, emozione dei lirici greci( la tua alba!),
frammenti dei presocratici, simboli matematici, graffiti esoterici,
codici binari, odio e amore, sofferenza e guarigione,
nell’intreccio morbido della tua sensualità raffinata,
ohi, i tuoi fianchi, ohi, il tuo seno
e quel sentire l’altrove nello sguardo e nei pensieri
come un segugio dell’altissimo
come addestrato cane il tartufo bianco più raro.
Ora dove vado senza il potere mistico dei tuoi passi?

Un tempo

de Alina Monica Țurlea

România

Il perché dell’esistenza mi sfuggiva

nello sfacelo della mia anima,

io, un essere incerto, una facile preda

dell’angoscia ,

una facile creatura che invocava la morte.

Ero paralizzata nella seta dorata del mio dolore,

sola, disamata, ingabbiata con una forte ira

contro me stessa,

Per giorni, settimane, anni avvolti nel grigiore.

Il tempo faceva finta di dormire la mattina,

quando mi hai trovata fare le mie preghiere,

imploravo perdono

al Spirito Santo.

Ma dopo il lungo sonno ci fu un grande risveglio;

Ho sostituito il rumore con il silenzio;

il ritmo frenetico del tempo con quello dei miei

passi da bambina,

ho sostituito il tetto della mia casa con le stelle

e adesso mi tuffo nel giardino dai ciliegi fioriti,

e mi vesto con il bianco dei loro fiori.

Sono nel regno di una primavera eterna,

dove anche il Signore si riposa.

Sono in ginocchio pazza di gratitudine.

A volte la felicità è così semplice!

 

Il poeta ed il bambino

di Angelo Gallo

Italia

Mentre andava a raccogliere un pallone un po’ inquieto

un bambino vide un uomo scrivere una frase

al tavolo del bar Necci al Pigneto

e meravigliato con curiosità gli chiese:

”Tante volte ti vedo qui curvo

a riempire questi fogli con parole e scarabocchi

sei sempre pensieroso ed hai stanchi gli occhi

ma che lavoro fai? Mi sembri uno scribacchino”.

”Hai ragione figlio bello che ti sembro strano

mentre gli altri giocano a carte e bevono piano

a me piace osservare e scrivere su questo infame mondo,

sulla natura, sui sentimenti, sulla vita

da quando si nasce a quando è finita

e sull’ingiustizia che non ha mai fondo”.

Il bambino a quel punto gli prese la penna e disegnò un cuore

poi andò dai suoi compagni, a giocare felice.

Il poeta con stupore rimase a pensare a quel fiore

e sulla pura bellezza che tutti abbiamo avuto a quell’età.

 

Le stagioni ritornano

di Diego Gambini

Italia

Le stagioni ritornano
come le foglie che cadono
in autunno e rinascono
a Marzo, nel silenzio, piano.

Ritornano i vecchi amici,
i vecchi ricordi d’infanzia
quelli tristi, quelli felici,
il tempo li plasma con grazia.

In queste stagioni ritorniamo
a guardare il mare calmo
lasciandoci trasportare come un ramo
che scivola giù per il fiume,
tenendo in mano,
per vedere il tragitto,
un arrugginito lume.

Mi scusi signora se non ricordo
il suo nome, anche se il viso
mi è familiare, lei mi accenna un sorriso
ripetendomi nella testa di non scordarmelo.

Riviene alla memoria
il fatto che al posto di quel negozio
c’era un barbiere da cui andavo con mio padre,
dove mentre aspettavo, seduto, leggevo
i giornalini con le vignette, e in quell’ozio
intanto le macchine transitavano nelle strade.

Forse, fa solo a me, ma risento
gli odori perduti da anni
ed è come se non fossero mai passati,
partiti e ritornati col vento.

Stagioni nostre, stagioni solitarie,
le stesse che noi vedevamo con altri occhi,
era così presente in noi l’innocenza,
prima che i rintocchi
del tempo ci cambiassero le carte e le storie.

Scintille

di Marilena Ferrante

 Italia

Amore che intinge il cuore nei tramonti

arrovellati dalla luce tagliente

dei corpi dismessi dal calore .

Amore che presta le sue barriere all’inutilità ,

amore che spinge i tuoi occhi a scorgere

sempre una scintilla nei miei sguardi.

Amore che squarcia la notte con i sibili del silenzio

ed entra prepotentemente nelle mie viscere

a cogliere il seme del peccato.

Travolti , amore, chiediamo compassione

per  i giorni caduti nel peccato,

per argini di sofferenza immersi

nel vuoto crepitio del fuoco

che accende le mie membra e ricorda

il potere delle tue mani poste

a desiderio dei miei peccati.

Forza che macchia le futili giornate , amore,

che imprime la sua presenza ,

ignora il tempo che fugge ,

maschera di azzurro le paure

che regnano tra gli amanti.

Tu amore, prendi i miei sogni per tramutarli

in regole del gioco scampate alla  ragione e al dubbio.

Il turbinio del desiderio si appiana

sulla corteccia del tuo guscio

dipinto dalle stelle che giocano

di notte con noi.

Amore., mai svelato, mai temuto,

mai perduto.

Amore.

NEL PROFONDO

di Giuseppe Tacconelli

Italia

Giorni opachi vissuti da straniero.

Distante nella mia imperfezione.

Spigoli di grigio acciaio

flesso in angolazioni improbabili.

Minimali certezze assediate da dubbi

cinicamente muoiono di inedia.

Mi muovo tra visi senza corpo.

La realtà sfuma i propri contorni.

Tempo che gocciola i secondi

nei calici di torbide pozze.

Devo isolarmi.

Distacco per non perdere l’identità,

impastato in goffi brusii di strada.

Racchiudo la mente in una scatola di scarpe,

le più vecchie e consunte

in solitaria riflessione.

Progettando edifici scagliati nel futuro,

senza smantellare quelli pericolanti,

ancorandoli a nuove fondamenta.

Per poter riaprire il coperchio alla vita.

Dal libro “Vorrei che quel domani fosse oggi –

Riflessi d’amore e vita” Edito da Enoteca Letteraria

VISO D’AMORE

di Germain Droogenbroodt

 Belgio

Viso d’amore, nei pensieri,

mentre cadeva dal cielo la neve.
Interrogando la dolcezza degli occhi,

si faceva infinite domande.
Poi sparì svolazzando tra gli alberi
– Oh, caduta del paradiso! –
Allora ogni uomo divenne un albero,
abbracciato e coperto dalla neve.

L’Amore, no ” il suo quasi “

di Iole Chessa Olivares

Italia

Per un solo approdo
al richiamo primario
un furtivo arrampicarsi
sulle nuvole.
Il turchino all’orizzonte
una labile traccia
talvolta
solo una vampata acerba
remota
oltre la purga del cielo.

Tutti i santi giorni
l’amore, no ” il suo quasi “
da profonde distanze
guerreggia
per confermare sé stesso
oscillante
nei ripetuti desideri
pensose minuzie
oscuri malintesi
nel respiro imprevedibile
di un’errante chimera.

Sia poesia

di Mariangela Costantino

 Italia

Finché avrà voce il cuore

e lo sguardo l’incanto della luna

ti condurrò per mano

mio sogno, mia speranza.

Quello che voglio

è vita senza veste né distanze

un verso dolce, parole sussurrate

in questa oscurità di luce.

Sia poesia

la piccola goccia senza casa,

il tiepido tramonto

d’un cielo trasognato.

Non è forse mare

che ondeggia l’universo,

non sono sogni le stelle

che cercammo invano?

Siamo le lente note di un adagio,

un frullo d’ali in fuga dalle ombre

ai piedi di colline stanche.

Dammi i tuoi occhi

dove abissare il tremito,

dammi il tuo fiato

che scuota tra le fronde la tempesta.

Nel vento andremo

tra canne ripiegate

docili al tempo che dilata il varco

e tornerà quel battito ignorato

a schiudere le bocche disilluse,

a tendere le braccia ed innalzare il canto.

Sarà fuggito volo quello strappo

e le radici incideranno soli sulla pietra,

quel dì perduto, mendicato pane

non teme il fato,

intride il cielo

è parte,

è tutto.

Il disegno di Dio

di Lidia Popa

România

Creare una poesia è una magia.
Gocce di parole che scorono
Singole, ataviche, placide…


L’eccelso è tutt’altra cosa.
Non s’inventa.
Si sente un’esplosione da dentro.


Si sogna con occhi aperti.
Il disegno di Dio:
La creazione.

 

Sento l’emozione quando si avvicina.

Sussurra come un ruscello.

Mi trascina.

Ti amo in ogni stagione

di Franca Billa

 Italia

Ti amo,
senza sagome
di cuori e colombe,
nel giorno d’agosto
rubato a febbraio.
Quando l’orizzonte
è una grigia onda errante
e quando
il soffio del vento
arruffa il frumento.
Ti amo
dimenticandomi
della tua presenza
che come una pressione
sotto l’ala mi impedisce di cadere.
Ti amo
con la stessa misura
di una natura nuda
che non gira
attorno alle cose.
Come il pulviscolo
che danza nella luce
ed arriva agli occhi
prima del suono
del tuo nome.
Ti amo
con la stessa inclinazione
di chi conosce
le conseguenze
dei diversi tipi di venti.
Ti amo
in ogni stagione
senza inutili parole
d’amore.

Solo un fiore ho amato

di Marcello Di Gianni

Italia

Solo un fiore ho amato, sconosciuto.
Soffiava il freddo – raschiava il volto
il gelo pungente. Dintorno il silenzio,
un villaggio che cullava l’umida sera.

Divaricavo le stagioni per cavarne
un rifugio; appendevo abiti intrisi
di follie dimenticate sulle punte
affilate dei miei ciechi rimorsi.

Si rannicchiavano i rovi nelle vene,
instillando in circolo temibili gioie:
a cosa darsi appiglio, se la fulgida
primavera dolente giace sui rami?

Tele vuote impresse nelle memoria,
dipinti incompleti dall’acre odore
del tedio: con un colpo di mano
tutto passava sotto l’arco di pietra.

Giudice e condannato del mio io,
con un groppo di pena in gola reo
della solitudine dei tigli vinti,
dell’amaro in bocca della libertà.

Solo un fiore ho amato, sconosciuto.
Reciso dalla tempesta, mai più sarà.
E altri campi rispuntano altrove
alle sembianze di un saluto d’addio.

 

I miei amici sono uccelli neri

di Katerìna Gògou

Grecia

I miei amici sono uccelli neri
che fanno l’altalena sui terrazzi di case cadenti
Exàrcheia Patìssia Metaxouryìo Mèts.
Fanno quello che gli capita.
Piazzisti di ricettari ed enciclopedie
costruiscono strade e uniscono deserti.
Interpreti al cabaret di via Zenone
rivoluzionari professionisti
messi spalle al muro hanno mollato
ora prendono pastiglie
e alcol per dormire
ma sognano e non dormono.
I miei amici sono cavi tesi
sulle terrazze di case vecchie
Exàrcheia Viktòria Koukàki Ghìzi.
Ci avete inchiodato milioni di mollette di ferro
le vostre colpevoli decisioni al congresso
gonne prese in prestito
bruciature di sigarette strani mal di testa
silenzi minacciosi cerviciti
omosessuali si innamorano
tricomoniasi ritardo
il telefono il telefono il telefono
vetri rotti l’ambulanza nessuno.
Fanno quello che gli capita.
I miei amici viaggiano sempre
perché gli state col fiato sul collo.
Tutti i miei amici dipingono col nero
perché gli avete distrutto il rosso
usano la lingua dello slogan
perché la vostra è buona per leccare.
I miei amici sono uccelli neri e cavi
fra le vostre mani. Alla vostra gola.
I miei amici.

Arrivò una bambina …

di Herta Müller

Germania

Arrivò una bambina dai capelli bianchi
e non aveva più denti
soltanto pane nella pancia e patria
e una mano gialla fatta di neve e
la fortuna che sbatte contro la guancia
subito il mio cappotto di fuori fu bianco e
i miei sarti mi domandarono perché
non so morire
di cosa sono debitrice agli alberi
è una cosa che si lascia appesa lassù.

PAURA D’AMARE

di Gianfranco Gazzetti

Italia

Se i giorni han portato dolore

Se amori svaniti nel vento

Il cuore ci hanno ferito

Pensiamo a una storia serena

La pace che il cuore ci acquieta

E le sue ferite lenisce

Ci sembra un approdo sicuro

Dell’anima l’arcobaleno

Ma i fuochi che ardono a lungo

La brace alimentano sempre

E sotto la brace sorniona

La fiamma aspetta il suo tempo

Le brezze e i venti improvvisi

La fiamma faranno svegliare

E il fuoco a lungo covato

Non può se non divampare

La pace è un miraggio assai vano

Se amore il tuo cuore ha colpito

E come se dentro un vulcano

Versassimo acqua gelata

Nel vano e illusorio sperare

Che l’acqua il vulcano ci spenga

La vita ci dona l’amore qual dolce e tremendo regalo

E’ inutile averne paura

Non serve una pace falsata

Dobbiamo soltanto sperare

Che gli occhi che un giorno han brillato

Ritrovino lungo il cammino

Degli occhi compagni sinceri

Allora la brace irrorata

Da lacrime di contentezza

Potrà riposare in pace

E il fuoco che emette calore

Non brucerà più il nostro cuore

Ma luce sarà sulla strada

Di splendido sogno d’amore.

Sognami

di Alfredo Caronia

Italia

Sognami

Stella lontana
nei miei capricci
quotidiani,
sbalordiscimi
ed allontana
gli incantesimi
di idoli artificiali
fabbricati sulla Terra
come ordigni
pubblicitari,
effimeri;
Mai sia
e
sarà
effimera la tua scia
che trapassa le nostre Vite
avvolgendole di luce di atomi
di cosmica essenza
in cui si affaccia,
assorbito,
ogni mio respiro!
Oh Voce di stella,
mio Senso supremo!

Nascondimi amore senza tempo

di Lidia Popa

 România

Nascondimi nella tua anima come un fiore azzurro nell’erba
smeraldina del prato, quando il sole illumina il volto ad aprile.
Se mi vuoi baciare, ricordami con il profumo delle viole
appena sbocciate, quando l’usignolo canta il madrigale all’alba.

 

Nascondimi tra le pieghe del tempo, come una lacrima
che scalfisce una ruga sul volto, quando piove a dirotto.
Tienimi stretta amore caro, nel ricordo della passeggiata
nella pineta odorata di terriccio fresco al dì di maggio.

 

Non sarai mai solo se toccherai le corde del violino,
come uno sfioramento di veli pregiati nel siparietto,
un solfeggio fresco di malva appena sussurrato.

 

Nascondimi amore nel solco inciso del nostro passato,
tra flauti sulle colline e richiami di tenero cerbiatto,
senza tempo e rimorsi, quando il tramonto in noi sarà calato.

sai più?

di Gabriel Gherbăluță

traduzione in italiano di Lidia Popa

România

mi dicevi della morte,

che è solo un passaggio,

un scivolare nell’altrove!

una metamorfosa di stato.

un’evasione …

ti sbagliavi …!

ho rotto tempo fa un ramoscello dal susino

che si sollevava alla finestra del mio studio,

per metterla nella classe,

sulla cattedra, in una lattina di cola,

piena con acqua.

l’ho fotografata e allora ho visto

cos’è la morte!

-un ramoscello di susino in una latina vuota di

Cola

Mamma

di  Friederike Mayröcker

 Austria (1924- )

traduzione in italiano di Lidia Popa

 

Mia madre a braccia aperte

che mi ha salutato quando sono venuto da lei

mia madre con le parole tenere

quando l’ho chiamata, non potevo venire

mia mamma si girava

quando voleva parlare mia madre non poteva

Gli occhi si sono chiusi

quando sono arrivato in ritardo per abbracciarla l’ultima volta.

GROVIGLIO

di Fabio Strinati

Italia

Salvadanaio mentale sprofonda nel disordine

coi fumi forestieri,

cicalini vibratori e megafoni interni

che ignorano la mantide

attanagliata nelle vene tormentose.

Clemenza che sbircia oltre uno sgretolato muro,

e nessuno che sparla per sprechi d’anime

nei metalli al cuoio,

di annunci lontani dipanati durante tempi

per le salite esposte.

Perdonami bambino!
di Dorin Dumitriu

(Romania)

traduzione in italiano di Lidia Popa

Mi piacerebbe che mi perdonassi bambino
Che non ti lascerò in eredità i miei palazzi
Ero povero, ma ho cresciuto te,
Non sapevo che un giorno saresti stato lontano.

Non mio caro bambino, non ho rubato
E non ho tesori di lasciarti come eredità,
Non vorrei dirti quanto ho dovuto sopportare,
E finché volevo che tu stia con me.

Ma sei cresciuto, bambino, te ne sei andato,
E tu e tua sorella siete andati mandati dalla sorte,
Io sono rimasto con l’animo rattristato
E vi sto ancora aspettando piangendo da solo al cancello.

E so che a volte pensate a me
Ma la vostra vita non è facile,
Ora che i miei giorni sono meno
Vorrei che questa distanza non facesse male.

Sto diventando più difficile con la vecchiaia,
Ma io non piango e non vi chiamo,
E se il Signore volesse restituire la mia giovinezza,
Nessun rimpianto e dubbio mi piacerebbe vivere lo stesso.

E se non potete venire, verrò io
Per portarvi qualcosa da mettere sul tavolo,
Non vi dirò quanto sia difficile,
Quando venite così di rado e dimenticate com’è a casa.

Mi piacerebbe che mi perdonassi bambino
Che non lascerò in eredita i miei palazzi
E se succede non raggiungere a te
Non lasciate che i giacinti muoiano non annaffiati.

 

IL NOME DEL CREPUSCOLO

di Alfonso Pretel

Spagna

traduzione in italiano di Lidia Popa


Perché non ti chiami crepuscolo
se il tuo aspetto ha una luce debole
come la fine del pomeriggio perso
senza trovare la ragione per le assenze
che ti fanno desiderare la notte oscura
dimenticare tutte le ombre deluse?
Il sole sta per morire
e hai lasciato che la giornata finisse
pensando che l’arrivo di un’altra alba
potrebbe essere un bagliore sorridente
con la luna del mattino del tuo ritorno.

E SCORRE IL TEMPO

di Luciana Capece

Italia

Prima classificata

Concorso Parole dipinte 2017

Senza controllo
la finestra delle ore
apre i cancelli d’arrugginite albe
con un suo ordine spontaneo.

Ignota la malinconia
di soprassalto,
viaggia su rotaie sgangherate
e, nella morsa del presente
parcheggia obblighi d’ombre remote.

La maestria del vento
fa a botte con l’utile ragione
d’una clessidra marcatrice:
di radici a volte perdute
e d’amore ricercato.

Col pennello del re sole,
che dipinge sul palco del mare
arcobaleni d’antologia umana.

Ove murmure e dormiente,
bordato di lucerna
corteggia le stelle,
con un’estasi compiuta
da ennesima sua potenza
fino al buio dei fondali.

Onde cataloga brividi
di nascita e morte.

Viole… primavera di vita

di Lidia Popa

România

Pulsa la terra tra gli ottusi cementi.
All’ombra degli arbusti atterrano le api.

Sprazzi di sole illuminano gli spazi,
Invasi da edere ed alti muri.

Non ha torto la vita.

Ha torto l’uomo che chiude nei recinti
I cicli delle stagioni in procinto di vita.

Un perpetuo di mimose,
Il marzo fa nascere in simbiosi.

Sboccia la vita,
Addormentata su prato di ruggine.

Raccolgo queste viole per te.
Che i colori senti toccando ma non gli vedi.

Sono i tuoi occhi vivi –
Uomo che ti nascondi dietro i recinti.

Di tenere mimose, di polveri gialle
Oggi ho nausea e vertigini.

L’odore di fresco esalta la terra,
M’incammino nel bosco il dì di primavera.

Per una salsa d’ortiche e gioire ancora,
assieme alle viole… primavera di vita.

RIVISTA LETTERARIA  LIDO DELL’ANIMA Anno 2017 – di Lidia Popa

©

Buon Natale! Felice 2018! 

https://youtu.be/A1Xfih5T4FU

per info email: periodicoonline.lidodellanima@gmail.com

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Numero 3

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 dicembre 2017

Minuetto poems

Euridice

di © Gianni Mazzei

Profuma la pantera, per catturare le vittime,
così il mio canto, Euridice
le ombre dell’averno e gli inaccessibili luoghi
e vagliare con la cetra,
io che invento miti e fiabe sconvolgenti,
l’intimo rigore della fantasia
per altri miti
che ai mortali possano apparire antichi e divini
ma a me artefatti.
Nel canto io centuplico la mia identità,
ma a volte dubito della tua
nella mia mente e nel mio canto
e se veramente fosti morsa dal serpente per sei volte
prima di scendere negli inferi
e se,commossi gli dei delle ombre,
eri tu a seguirmi o altra per inganno
e mi voltai per verificare.
Rompendo lo stupore del canto,
che vive senza logica
come l’amore e senza chiedere o avere.
Se vuoi sbranarmi, fallo, ora che sai chi sono,
in tanti pezzi,
ma poi rigenero dal cuore che è solo intelligenza
in me
e non fluido sentimento
che nemmeno la calce viva può distruggere
che frigge
persino l’occhio di Omero e di Borges,
il cieco del labirinto.
Nessuna selvaggia violenza
può sconvolgere il mio pazzo sole.

Ero stata nel villaggio
di Mariana Adascalitai

Traduzione in italiano di Lidia Popa

Ero stata nel villaggio, nel mio villaggio, a casa
Stavano piangendo sulla strada con foglie bruciate,
Stavano piangendo sotto le pietre e l’erba
Anche io stavo piangendo, ma, Signore, ancora invano
Che non possono sapere cosa è morto
Quando la foglia della foresta brillò
Quando l’erba si è asciugata, svuotala
E l’acqua nelle fontane è fangosa …
Ero nel villaggio, nel mio caro villaggio,
Stavano lasciando lo swing …
È autunno, sta cadendo sul grano,
Un vecchio mi ha dato il pane;
-Apost, anima persa
Chi stai cercando? … A chi vieni?
L’ultimo, nel suo mantello, suo padre
M-like con noci e mele cotogne;
-Sì, madre, per i morti per i morti
C: finalmente andiamo fino in fondo
Il ricco con i poveri in giudizio
-Sì, mamma e lei lo sta mangiando …
Li ho radunati, ho rovesciato il vento la scorsa notte
Sono buoni, naturali, in campagna …
Hanno ancora una macchia o un verme,
Ma non sono cosparsi, mamma, non preoccuparti …
È stato quest’anno, così tanto frutto
Dobbiamo dare, lo mettiamo e lo asciugiamo sul ponte,
Dalla misericordia del Signore abbiamo tutto
Solo i giovani lasciano i villaggi
E non sono più bambini, o pochi
Quelli che se ne sono andati, madre, attraverso estranei
E c’è altro in arrivo, solo nei giorni festivi,
– Dai a tua zia un mazzo di fiori?
Eppure, si addormentò e si sbagliava,
Di chi sei, ragazzino, fuori dal villaggio?
-Oh, per un po ‘, zia, sono un’orfana
Nel cimitero ho un padre e ho una madre …
Conosco le strade tutte, conosco gli alberi,
Conosco il campo estivo quando indossa la stoffa,
Conosco il campanello della campana e conosco la luna,
Conosco il sapore della pentola quando brucia …
Conosco il sapore di polvere e sangue
E perché il mio villaggio piange per un po ‘?
Guardo nei loro occhi e vedo i miei genitori
Perché è sempre più simile ai santi?

Eco di mille apparenze

di Marcello di Gianni

Eco di mille apparenze. Nell’enigma
delle navi e delle scie sugli oceani,
ambisco a gettare il sale nelle acque,
al ferirsi innocente degli oceani.

Note acute del mattino scherniscono
il già atteso ferito temporale;
di invisibili marionette circondata
è la notte che inerme vigila.

Solo dei venti battenti odo far boato,
delle naufragate speranze salvate.
Nella barca di fortuna getta ancora
il pescatore la canna sulla riva.

Alla noncuranza e all’irrequietezza
d’un viandante mi lascio andare;
così dalla paura nel sacro cinerario
depongo la sensibile mezzanotte.

No, non ai nostri piedi fiorirà la fine;
non un cupo raggio appassirà più
i mirtilli neri; non fiorirà più
il nero nei fondali oceanici.

No, non più silenti saranno i tigli.
E si depone sulle labbra il vento
tra un pianto e una poesia vissute,
nell’attesa di un’insolita partenza.

Primo Premio – Premio Belli 2017 – Poesia in lingua

Filo d’erba

di Marilena Ferrante

Non mi serve il mondo

per capire quanto le stelle

possano coprire il mio volto

incantato da luci di purpurea saggezza

Non mi serve la certezza

di una mano

di smisurata gratitudine

Non mi serve il mondo capovolto

senza speranza.

Vorrei solo un filo d’erba

che mi accarezzi il volto

esposto alla luna

di fievole speranza.

WALZER AUTUNNALE

di © Lăcrămioara Maricica Niță

Come le foglie staccate dal ramo

Portate sulle ali del vento verso paesi sperduti,

Baciati dal sole  bagnati dalla pioggia

Mi prendo nella danza del arcobaleno.

Un walzer continuo, una musica infinita.

Goccia dopo goccia , passo dopo passo,

A mia danza selvaggia

Sarà un inchino ala Madre Terra.

Sia poesia

di © Mariangela Costantino

 

Finché avrà voce il cuore

e lo sguardo l’incanto della luna

ti condurrò per mano

mio sogno, mia speranza.

Quello che voglio

è vita senza veste né distanze

un verso dolce, parole sussurrate

in questa oscurità di luce.

Sia poesia

la piccola goccia senza casa,

il tiepido tramonto

d’un cielo trasognato.

Non è forse mare

che ondeggia l’universo,

non sono sogni le stelle

che cercammo invano?

Siamo le lente note di un adagio,

un frullo d’ali in fuga dalle ombre

ai piedi di colline stanche.

Dammi i tuoi occhi

dove abissare il tremito,

dammi il tuo fiato

che scuota tra le fronde la tempesta.

Nel vento andremo

tra canne ripiegate

docili al tempo che dilata il varco

e tornerà quel battito ignorato

a schiudere le bocche disilluse,

a tendere le braccia ed innalzare il canto.

Sarà fuggito volo quello strappo

e le radici incideranno soli sulla pietra,

quel dì perduto, mendicato pane

non teme il fato,

intride il cielo

è parte,

è tutto.

OVUNQUE

di © Lia Lobue

Tra tarocchi ingialliti,
vecchie ballate
e vetri rigati da lacrime e pioggia
ti ritrovo.
Mentre mi sorridi o mi guardi di traverso
io mi impregno della tua forza
Nel mio viso di bambina
era impressa la tua dolce rotondità.
Nel mare calmo delle mature notti d’estate
si rifletteva la tua luce argentea
quando come vestale
a te levavo il mio canto ed il mio fuoco.
Dolce compagna
di notti insonni
da amante ,
da madre
e da spirito inquieto
quando sarò nera
volerò da te

Non conosco il tuo nome
di Massimo Pacetti

Mi guarda negli occhi
e anch’io la guardo
negli occhi

poi, li abbasso
e lei mi guarda
insistente, senza fretta

nei miei occhi c’è la paura
ho paura che lei mi chieda
mi domandi: qual è il futuro?

io non lo so qual è
quale sarà
il suo futuro

non so nemmeno
quale sarà il mio

ma il mio futuro
è sempre migliore del suo

lei, lo sa
anch’io lo so
e non riesco
a guardarla negli occhi

poi, la guardo
rialzo lo sguardo
e lei mi sorride
mi rassicura

avrei dovuto essere io
a rassicurarla

mi sorride
con quella luce negli occhi
scuri come la notte
che aspetta il giorno

sorrido, anch’io
ora so, cos’è la notte
e non penso al futuro

ho scoperto cos’è la luce
che apre il giorno

quando tornerò
non penserà al futuro

mi basta sapere
cos’è la morte.

Nell’amore che mi vive dentro

di Michela Zanarella

Nell’amore che mi vive dentro

so che ci sei

assorto a toccare la vita in silenzio.

Hai gli occhi pieni d’alba

e ti sei abituato a sentire la luce

dopo che ti ho baciato l’anima

con semplici parole di vento.

Forse hai bisogno

di slegarti dal limbo

di un tempo che ti ha ferito troppo

forse hai bisogno di ammorbidire

i giorni

e di conoscere meglio il cielo.

Anche per te

arriveranno verità

come raggi caldi del destino

e dovrai solo assistere

al sole che sorge

accanto alla foce del mio canto.

La devozione a esserci
di Iole Chessa Olivares

Nello sperpero di tinte
allontana il tempo
nuove possibili primavere,
forse il sorriso,
con allusiva clemenza,
lascia al labbro
– appena nascosto tra i denti –
un anticipo di cenere.
Eppure, del tutto non si estingue,
la devozione a esserci.
Un filo d’anima alla volta
svaria, si dipana tra i riflessi,
anche i meno leggiadri,
alle pieghe del cuore arresi
senza nido,
per malia di un smerlo inatteso.
Avanza la devozione,
avanza soave e… non s’adombra,
porta con sé
le molte ore infrante
sul bisbiglio”dell’ormai”
e vivo, soccorrevole,
il richiamo
di una smisurata altezza
mai troppo lontana.

VORREI  ESSERE  NULLA

di  © Anna Maria Bonamore

 

Vorrei essere nulla

o mio Signore,

vorrei essere scricciolo

nelle Tue mani

o piccolo petalo di rosa,

luce d’alba

o tenero colore di tramonto.

Vorrei essere chiaro ruscello

che sgorga solitario

o tintinnio leggero

che si trasmuta in musica.

Vorrei essere Amore

che asciughi gli occhi

o farfalla leggera

che posi su di un fiore.

Vorrei essere battito d’ali

sul Tuo cuore

per trovare la mia pace.

di © Gastone Cappelloni

L’amore ha gli occhi

peccaminosi

della malinconia.

Coricandosi

sulle favole del tradimento,

si emozionerà

di

dispiaceri irrefrenabili,

passando gli istanti

a detestare

compiacenti complicità,

accentrando

sonni in disuso.

Solo così

saprà amarsi

di scontato

mai definitivo.

L’amore ha gli occhi

peccaminosi

della malinconia.

Coricandosi

sulle favole del tradimento,

si emozionerà

di

dispiaceri irrefrenabili,

passando gli istanti

a detestare

compiacenti complicità,

accentrando

sonni in disuso.

Solo così

saprà amarsi

di scontato

mai definitivo.

Gastone Cappelloni

L’amore ha gli occhi

peccaminosi

della malinconia.

Coricandosi

sulle favole del tradimento,

si emozionerà

di

dispiaceri irrefrenabili,

passando gli istanti

a detestare

compiacenti complicità,

accentrando

sonni in disuso.

Solo così

saprà amarsi

di scontato

mai definitivo.

sai più?

di © Gabriel Gherbăluță

mi dicevi della morte,

che è solo un passaggio,

un scivolare nell’altrove!

una metamorfosa di stato.

un’evasione …

ti sbagliavi …!

ho rotto tempo fa un ramoscello dal susino

che si sollevava alla finestra del mio studio,

per metterla nella classe,

sulla cattedra, in una lattina di cola,

piena con acqua.

l’ho fotografata e allora ho visto

cos’è la morte!

-un ramoscello di susino in una latina vuota di

cola

traduzione in italiano di © Lidia Popa

Siete capaci di fermare un sorriso?

di © Flavio Malaspina

La poesia non è nulla
È come un male di stagione che dopo passa e spesso porta via con se tutte le cose buie
La poesia è un tentativo di creare qualcosa di bello
È una farfalla che prima era bruco
E poi crisalide in una testa ninfale
La poesia è cercare risposte anche dove non ci sono domande è creare altri mondi oltre al nostro è disegnare con le parole profumi e afrori che non esistono
Ma la poesia sa essere anche suppurazione e cancrena ma subito dopo rinascita e guarigione
La poesia è rivoltarsi e accarezzarsi dentro fino al più piccolo vaso sanguigno è mettersi a nudo e mettere a nudo ciò che di meraviglioso ci circonda ma anche ciò che di più orribile giunge ai nostri occhi
La poesie è vedere anche dove non c’è niente da vedere
Dire dove non c’è niente da dire è svestirsi di tutti gli orpelli per mostrarsi come si è veramente
La poesia è bambagia che toglie il trucco dal viso del mondo è acetone che libera l’unghia è il latte detergente degli Dei è pioggia dopo giorni d’arsura
La poesia è lenimento a volte divertimento ma spesso è lutto e frustrazione
Afflizione
Perché la poesia molte volte non esiste e quando ci sembra di leggerne ci sbagliamo è solo una malia un incantamento
È un idea del poeta
Che è talmente convinto di averla scritta che essa appare per non deluderlo e per non deluderci
Perché la poesia sa essere strana e può apparire solo a chi la ama ma di un amore struggente fedele e struggente
Perché la poesia a volte è solo un pensiero ed allora è ancora più bella la leggono solo gli innamorati e i perdenti
I puri di cuore
Non gli strafottenti
Questi ultimi sempre soli non sanno neppure cos’è la parola figuriamoci la poesia
Dio quanto amo la poesia perché detto tra noi io neppure so cos’è la poesia ma è come un sorriso
E voi siete capaci di fermare un sorriso?

Gli sposi falisci

(Omaggio a Campigli)

di © Eugenia Serafini

 

Vedono il sole

con gli occhi di terracotta

finché si leva

alto

conficcandosi nel grembo del cielo.

O dolci sguardi

degli sposi falisci!

languidi amanti

di un tempo

ora essi giacciono

ieratiche terracotte

sul sarcofago muto,

scrigno poroso

di tanto gravido amore.

Ma non tacciono

gli sguardi

ed il gesto

che arse di ansia

sublime

i corpi intrecciati e

le membra.

Fantasia

di © Antonio  di Lieto Vollaro

D’innocente mano,

sent’ì stringer la

la mia,

portandomi lontano,

in mondi sconosciuti,

stretta a me,

in mente mia

a cavallo di

bianco destriero

alato,

volle fuggir via.

Cuor e mente

complici insieme

li sentivo rider di me,

dell’improvviso viaggio,

meravigliarsi

del mio

stato.

Pazzo, di me

la mente ebbe

visione,

il cuor

capì

l’innocente evasione.

Un sorvolo da cupi

nubi,

di pensieri, sofferenze,

rancori e risentimenti,

amori passati e  presenti,

scorsero veloci

in un tempo,

che tempo non era.

Errar per ignoti

ed immaginari lidi,

senza capir senso

d’immagini represse,

liberazioni ebbi

in improvvise gioie

sentir scomparir

pesi e tristezze

riabbracciar

sentimenti perduti

in posti ritrovati.

Donna

Da ventre tuo,

si nasce,

per cuor tuo,

si combatte,

e si muore.

Prediletta,

gelosi

tutti i padri,

dell’amor tuo,

rassegnati,

in accompagnarti

sposa

d’acquisito figlio.

D’ogni gesto,

parola, azione, sentimento,

musa ispiratrice,

in ogni cuor

tu vivi

in perenne momento.

Moglie in pazienti

quotidianità,

passionale amante,

in focose notti,

tenera madre e saggia

educatrice,

spesso incompresa

e maltrattata,

d’inaudite violenze

vittima indifesa.

Nonostante tutto

immensamente donna,

ovunque donna,

tu sei,

nostra guida,

angelo custode.

CAMMINANO IN FILA INDIANA

 

di Antonella Proietti

Camminano in fila indiana.

Sporchi, stanchi, affamati, disperati.

Emigrati.

Alle spalle dolore, acqua, buio, acqua,

acqua, buio, acqua, buio, acqua, buio.

Buio.

Acqua, acqua, acqua, voci, calca, voci.

Luci, terra, speranza, paura.

Camminano in fila indiana.

Davanti a loro terra, speranza, paura,

indifferenza, diffidenza, violenza.

Accoglienza, forse.

Hanno attraversato i mari,

e ora camminano in fila indiana.

Per quel forse.

Nostalgia della morte
di © Franco Di Carlo

ho dato spazio al mondo nella bianca
terra arida radura dove prorompe
la rude immagine, violenza verbale
dell’autobiografia intellettuale
pensiero istantaneo e poetante
risorge dalle sue ceneri nella
notte talismanica, quando le foglie
rosse, di soglia in soglia ricoprono
di papaveri i lamenti della luna
donne al fondo, la memoria e soccombe
ultimo canto sacro sulla tomba
di Isidore, mentre il suo sguardo di seta
accresceva il caos e la discordanza
delle voci dorate, citazioni
infinite, sovversive esplosioni
postmoderne, spogliate di ogni orpello
quando l’incontrai oltre il monte della
follia, s’abolirono i confini tra
essere e nulla e impersonale voce
nacque originaria e distaccata.
Profezia di silenzio e parodie
retoriche autodistruttive fittizie
divinità, sregolata umanità
priva di un ordinato narratore
onnisciente, dove tutto si decompone
oltre il senso e la struttura, distruzione
immane perire di ogni punto di vista
isolati stereotipi surrealisti
metaforiche combinazioni auratiche
distinte stilizzate forme arcaiche
suggestioni teatrali cariche
di persuasioni espressionistiche
prosaiche borghesi allusioni Magiche,
si svegliò Friedrich sul sepolcro
di Sophie, fonte notturna di vita
e verità, splendida nostalgia
dell’oscurità opera del cuore.

Quando si pensa che l’amore
di © Angelis Giovanna

Quando si pensa che l’amore
non è diverso
l’una d’altro
io credo di fronte,
a questo nobile sentimento,
siamo tutti uguali e coerente
non c’è cuore che regge ,
non vedi nessun difetto.
Quando tutto finisce
dopo con il segno del dopo!
si rimane increduli ,
una persona come si può trasformare ,
si rimane abbattuti ,sofferti tristi
disperatamente,
tutto sembra inutile !
tutto va’,
diventa fluido come l’aria
il passato è segnato
Come quadri
appesi al muro
con dei colori sbiaditi, del tempo
tutto passa …ma i ricordi ,
son quadri che scrutino
anche gli angoli invisibili.
sono appesi al muro della vita
che scorre lentamente, lentamente ,va’.
con il cuore,
messo in una bisaccia.
La paura dentro.
tutto incomincia
senza mai
dimenticare il passato.
il cuore e cuore
e lui ha una memoria.


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© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Numero 2

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 settembre 2017

Minuetto poems

Gli occhi dell’amore

di Zâna Azamfiricăi

Ho incontrato oggi l’amore…
Stava nel parco frastornato
dal vento senza pietà dell’autunno
nel luogo dove ci siamo lasciati…

Stava sullo stesso tronco d’albero
dove anche noi stavamo una volta…
Sembrava indifferente come stava,
e la foglia gialla cadeva…

E mi ha guardato con un occhio della sera,
portava il tramonto nello sguardo…
Nei occhi io ho letto, nostalgico,
il racconto del singolo amore…

Ho incontrato di nuovo l’amore,
cosi pensavo, quando lui di fatto…
È stato sempre qui con me…
Nemmeno è partito, nemmeno ha scordato…

© Zâna Azamfiricăi Traduzione di © Lidia Popa

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Sempre così

di Nicola Manicardi

Sempre così daccapo

pronti a dire si.

Resti di comandamenti

presi sul serio

portati in giro

fra il martirio di una negazione

e un sorriso che ci pugnala.

Il resto, sarà un modo di dire

ad ucciderci la rabbia,

domani è un altro giorno.

© Nicola Manicardi

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La mia bellezza

di Greta Cipriani

La mia bellezza è personale.

Interiore è il mio mondo.

Valico spazi di straordinaria vertigine.

Non mi chiedere il perché.

Sono straniera alla tua vista,

le mie note immaginano campi,

sondano cieli, illuminano abissi.

Quel che sono non lo diffondono parole,

lo percepiscono entità.

Qualche volta spero,

qualche volta prego in me stessa.

Qualche volta fuggo dalla fede.

Qualche volta sono l’opposto di me.

La mia fede è personale.

Personale è il mio corpo.

La mia musica è il mio eterno.

© Greta Cipriani

© Rivista letteraria Lido dell’anima / Revista literară Lunca Sufletului

Il prezzo del sapere

di Bettina Matern Rivieri

Non m’importa della vostra conoscenza

e non m’importa della vostra sapienza,

che cercano solo

di controllare le nostre menti.

Non m’importa delle vostre regole e delle vostre leggi

che cercano solo

di controllare i nostri timori e le vostre paure.

Non m’importa dei vostri progetti ed aspirazioni

che cercano solo

di delimitare il nostro futuro, dimenticando il passato.

Non m’importa delle vostre illusioni

che divorano il nostro presente.

Non m’importa, perché io so.

E non m’importa che il mio sapere

mi rilega su questo scoglio

per voi inospitale,

roccia dura in mezzo all’oceano della vita.

La brezza vigorosa e forte accarezza il mio volto

ma io sento in essa la tenerezza degli angeli,

vedo i pesci volanti dei mille colori,

e seguo con il mio cuore il volo dei gabbiani

che fanno a gara con i miei pensieri.

Sento nelle onde di questo mare

le tue carezze della sera,

quelle che non mi hai mai dato.

Sento nelle gocce di pioggia fine

i tuoi baci sensuali

quelli che ho sempre desiderato.

Sento nelle folate di vento la tua voce

sussurrami le parole d’amore

che hai dimenticato di dirmi.

Questo luogo segregato è un paradiso,

perché

io so.

E nessuno

può trattenere

questa libertà assoluta.

Io so,

per questo sorrido,

anche se voi non comprendete.

© Bettina Matern Rivieri

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Nell’amore che mi vive dentro

di Michela Zanarella

Nell’amore che mi vive dentro

so che ci sei

assorto a toccare la vita in silenzio.

Hai gli occhi pieni d’alba

e ti sei abituato a sentire la luce

dopo che ti ho baciato l’anima

con semplici parole di vento.

Forse hai bisogno

di slegarti dal limbo

di un tempo che ti ha ferito troppo

forse hai bisogno di ammorbidire

i giorni

e di conoscere meglio il cielo.

Anche per te

arriveranno verità

come raggi caldi del destino

e dovrai solo assistere

al sole che sorge

accanto alla foce del mio canto.

© Michela Zanarella

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La pavoncella

di Iole Chessa Olivares.

Resta vicino
soltanto
ciò che va lontano.
Così
migrando
s’inchioda al cuore
la pavoncella
là dove s’incrociano
il vivere
e il suo lungo dolersi
di vena in vena
da ramo a ramo.

© Iole Chessa Olivares

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Venere Settembrina

di Gastone Cappelloni

Venere Settembrina,

trafitta e baciata

dalle nere spine dell’insonnia,

non spegnere

con le ire della mente

il verdeggiante spazio

dell’altro eco,

ma inebriati

di suadenti attimi,

guadando

vigliacchi orologi,

che di convenzionale

cadenza,

non meriteranno,

preziosa,

perenne tua libertà.

© Gastone Cappelloni

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Tu ed io dovevamo semplicemente amarci.

di Antonio di Lieto Vollaro

Mentre il crudele amore m’assediava,
senza tregua,
finchè lacerandomi con spade e con spine,
aprì nel mio cuore,
una strada bruciante.

Quella volta fu come non mai e come sempre,
andiamo li dove nulla v’è che attenda,
e troviamo tutto ciò che sta attendendo.

Forse tu non sapevi, amor mio,
che quando prima d’amarti,
mi dimenticai dei tuoi baci,
il mio cuore restò ricordando la tua bocca,
e andai come un ferito per le strade,
finchè compresi che avevo trovato,
nel territorio
baci e l’amore.

© Antonio di Lieto Vollaro

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Numero 1

Periodico trimestrale bilingue italiano / rumeno 

25 giugno 2017

Minuetto poems

La Bellezza

di Bettina Matern Rivieri


 

Tanti invitati

sulla piazza

all’evento della sera.

Mescolata moltitudine,

odore di vino

di corpi

di profumi vaganti,

bocche piene di cibo

e di parole vuote,

frasi inutili perse nell’aria

creano solo un leggero fruscio.

Da lontano giunge

una soave brezza

scompigliando armoniosamente

i capelli lunghi delle donne,

che s’aggiustano quasi infastidite.

Si intreccia

con i profumi della sera

e suoni della vita,

trasformando i vuoti

dell’esistenza

in armonia.

Una minuta vecchietta stanca

seduta su un muretto laterale

della grande piazza,

non invitata alla festa,

testa bassa a guardare

le sue mani callose

ed affaticate

nel grembo,

apre le sue narici

assaporando

a pieni polmoni

questo profumo

dai colori scintillanti.

Sorride allora

con gli occhi pieni di luce

e, guardando la folla, dice:

“Non l’avete vista?

È appena passata

la Bellezza!”

Ma la sua voce flebile

non raggiunge

gli intellettuali da strapazzo

presi dai loro discorsi,

non raggiunge le donne eleganti

prese dal loro aspetto.

Allora la vecchietta

con un sorriso

da eterna fanciulla

ed il cuore leggero,

si alza

senza muovere un passo.

I suoi piedi nudi

danzano

al ritmo d’una musica celestiale,

che l’accompagna

verso l’eterna casa,

mentre lei dice:

“Ora sì, ora posso

finalmente

riposare.”

© Bettina Matern Rivieri

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CORPO

di Clara Chiariello

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Il corpo mi respira

non crede alla verginità dei pensieri.

In un angolo sento le inquietudini

di una cassapanca con libri sacri.

Alle pareti i quadri mi parlano,

confessano peccati indecenti.

Non voglio ascoltare,

mi incitano a far godere il corpo.

Sono senza occhi tra muri maledetti,

si spalmano al mio passaggio,chiedono

se ho smarrito chiave, monete, messalino.

Si allontanano bestemmiando la loro origine.

Un violino vecchio e stanco su un piedistallo

mi guarda e sussurra che la bellezza bisogna

saperla apprezzare nel corpo.

Arrossisco e mi sciolgo come zucchero d’uva.

Tu arrivi su una nuvola di vissuto contorto,

vorresti con le tue mani su di me scrivere un libro.

Non ti rendi conto che il tempo ha già lavorato,

 ha già dettato comandamenti.

Ora perdi sangue,

la tua carne si maciulla,

torni alla terra.

Io ho ancora cammino,

devo intrecciare seta e diamanti,

concimare terreno con morti,

aprire il mare con le mani,

dare più colore e spazio al cielo.

Chiedo a un dio vivente

nelle gemme della terra

 quando potrò respirare

il mio corpo diventato cenere.

© Clara Chiariello

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LA LUNA E’ PIENA

di Assunta  D’Aversa

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La Luna è piena.

Forse era piena ieri.

Vederla stasera fa male,

È come incontrarmi svestita

col trucco ormai andato,

con lo sguardo pungente da strega.

Con la Luna io sono una strega.

Mi sento così questa sera,

insieme alla Luna

e poi d’improvviso lei stessa.

Ho riletto vecchie poesie

del gelido tempo dell’abbandono.

Lei ascoltava il mio tormento,

ed io ascoltavo il suo.

Forse lei immaginava il mio tormento

ed io, in simbiosi, seguivo il suo.
Solo un poeta comprende un poeta.

Ho spazzato via chi mi era zavorra.

Gli stolti con gli stolti

ed io a  camminare con chi si evolveva.
Guai a voi! La mia porta è serrata.

Stasera, forse, la luna è piena.

Magari era ieri.
Hai letto con me di abbandono.
Ero morta quel tempo da sola.

Ora viva.

Forse felice.

© Assunta D’Aversa

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Io sono l’albero

di Francesca Farina

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Io sono l’albero e la foglia,

sono il frutto, il miele e l’ape

e la nuvola e il vento e l’alto cielo,

sono il gatto, la martora ed il muschio,

sono il coltello, il taglio e la ferita,

sono la squadra, il cerchio ed il tamburo,

il suono, il cadavere e la danza, il rigoglio,

il verme, oscura terra, zolla, scorpione,

indice, lanterna, guaio, detrito,

scarto ed illusione, mente, memoria,

e te, mano che scrivi.

Sono la goccia, io, e sono il lago,

acqua perenne e pozza insanguinata,

sono mannaia e chi mi ha sferrata,

sono mortaio e seme che ho pestato,

io sono il pianto e chi mi ha consolato,

sono radice, fiore, sputo, fiele e sono cedro,

puro arco, piede, sono puttana e chi mi ha generato

e sono uno rimasto senza fiato,

sono quel fiato a lui presto fuggito,

sono il cucciolo che si è assopito,

la biada, il forno, il pane che ho sfornato,

io sono l’ultimo, ramingo, smorto nato,

il derelitto e il diseredato, il letto, il fianco,

il sesso avvelenato ed il piacere,

il cuore, lo starnuto, sono violino, sono alto liuto,

il cameriere e il vino che ha versato,

il commensale e il vino che ha libato,

il panettiere e il filone che ha bruciato,

la legna, il fuoco, l’arbusto incendiato,

il dio, il lampo, il tuono risuonato,

il fulmine di Giove, il fulminato.

© Francesca Farina

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T’AMO O SILENTE LUNA

di Giuseppe Tacconelli

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Luna sospesa tra le nuvole.

Sveli con argenteo afflato

il nome segreto d’amore,

della mia donna.

Serbato nel tuo dischiuso sorriso,

deposto con un bacio.

Fidata a ricambiare il dono.

Discreta messaggera

di ardente passione,

t’amo o silente Luna.

Il viso porti riflesso

del cuore che palpita per me.

Traversando eteree immensità

riversi bagliori a sollievo d’ambascia.

Sorridente compagna,

rigorosa guida nel percorso.

Cerco quieto il traguardo

a ritrovar la distante compagna.

Non m’illudi evocando diafani miraggi,

il viso tuo è per me certezza.

Sprone a vivere per il rifratto volto.

Doni coraggio nel superar perigliosi agguati.

Scansare abissi rocciosi con gioiosa danza.

Ballo sempre più festoso

all’approssimarsi del ricongiungimento.

Concesso nel luogo del tuo meritato tramonto.

© Giuseppe Tacconelli

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Destino crudele

di Marino Piras

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Oh, vento soffia forte e spazza via!
Togli questa angoscia dal mio cuore.
C è tanta confusione in mente mia,
In guerra tra l’odio e la ragione.
Chi
ha segnato il suo destino?
Chi ?
Ha dato lui la triste sorte,
Di luci brillava il suo cammino
Ora vede le porte della morte.

Hai emesso tu una sentenza
A chi non si curava del peccato
Ha dato tutto nella sua esistenza,
Nel far del bene non vedo reato.

Quel corpo ha perso la speranza,
Straziato si perde nel lamento,
A penar si trova in una stanza
Aspetta la fine di un momento.

A Te essere supremo
Che guardi da lassù:
Facci un cenno!
Dici cos’è giusto!
Che vuoi Tu?

Vita di tristezze e crudeltà
Dov’è il giusto?
Dov’è la verità?
Non lasciarci all’abbandono
Insoluto,
Tu che il comando l’hai voluto.
Dai amore e certezze a chi ha bisogno
E non lasciare che rimanga
Solo un sogno.

© Marino Piras

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Loco natio

di Luciana Capece

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Scivola tra le vene del natìo paesello
la vecchia abitudine del dialetto comune,
irrompe l’arte d’antichi maestri
pronta a dar segno al moderno sapere.

Sperduti cunicoli d’arcate in pietra
trafiggono fessure d’infiltrazioni dorate,
come labirinti si fanno scoprire
da gente gitana che ancora li ambisce.

Dal borgo viuzze, tappezzate di storia,
avvertono risentimenti di sofferto abbandono,
ricami e merletti solcati dagli anni
al ferroso balcone stendono ricordi.

Le piane d’ulivo tra i filari scoscesi,
serpeggiano coste ammantate di raccolto,
ridenti vigneti zeppi d’uva
biondeggiano d’attesa su dune di zolle.

Fontane scultoree, stormi d’uccelli
percorrono a ritroso la ludica infanzia,
la casa natale di ricchi racconti
nasconde tristezza per figlio straniero.

© Luciana Capece

capece.l@gmail.com

Lirica tratta dal Libro
“L’Olimpo Dei Cantici ” di Luciana Capece

2011Edizioni Progetto Cultura

https://www.facebook.com/lidia.popa1/

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